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Il principe di Dio Eugenio Pacelli: defensor civitatis

Il principe di Dio Eugenio Pacelli: defensor civitatis

di Giuseppe Baiocchi del 30/08/2020

Eugenio, principe Pacelli, 260° Vicario di Cristo in terra: non ha la disarmante mitezza di Papa Giovanni, non la sofferta modernità di Paolo VI, non il fuggevole sorriso di Albino Luciani. Pius PP. XII (Papa Pio XII) è il Pastor Angelicus, è l’ultimo principe di Dio: alto, elegante, magrissimo, diafano, ieratico, statuario, è il primo Papa degli immensi raduni, è il primo Papa della radio, del cinema, dei cinegiornali, dei rotocalchi, è il primo Papa della televisione, è Pius XII il più discusso, il più tormentato, il più indagato.

Prelato domestico, cameriere segreto, ciambellano papale, curato, Monsignore, Arciprete, Vescovo, Arcivescovo, Nunzio, Cardinale, Segretario di Stato, Legato Pontificio, Camerlengo, Pontefice Massimo: Papa Pio XII (nato Eugenio Maria Giuseppe Pacelli; Roma, 2 marzo 1876 – Castel Gandolfo, 9 ottobre 1958), è stato tutto questo ed anche 2º sovrano dello Stato della Città del Vaticano dal 2 marzo 1939 al 9 ottobre 1958. Nel 1990, a conclusione della prima fase di beatificazione, ha ricevuto il titolo di Servo di Dio. Nel 2009, a conclusione della seconda fase, ha ricevuto il titolo di Venerabile, che ne attesta l’eroicità delle virtù per la Chiesa. La causa di canonizzazione è affidata alla Compagnia di Gesù.

Papa della Chiesa incarnata in un tempo lungo, tragico, impietoso: ha visto i Piemontesi invasori, la disfatta di Caporetto, la massoneria messicana, la Rivoluzione Bolscevica, il duce del fascismo, l’apoteosi del Reich, i morti di Spagna, gli spietati Ustaša, le vane parole contro la guerra, gli appelli alla pace disattesi, la disarmata potenza della preghiera, le visioni, i presagi, le eclissi, ma su tutto — sempre — quasi l’interrogativo del suo silenzio sulla questione ebraica. La storia dell’ultimo principe di Dio inizia nell’Anno Domini del 1876, il 2 marzo è giorno di Quaresima: Eugenio Maria Giuseppe Pacelli nasce all’alba di un martedì piovoso. Pontefice Massimo alla sua nascita è Pius IX (1792 – 1878), il quale ha appena decretato il dogma dell’infallibilità papale, mentre è Re d’Italia Vittorio Emanuele II (1820 – 1878) che ha invaso lo Stato Pontificio appena sei anni prima della sua nascita, nel 1870. Gli italiani sono 28.000.000 e il 78% lavora la terra, più del 50% non pratica la scrittura e la lettura, mentre l’80% dei bambini non frequenta corsi scolastici. Eugenio nasce da un’aristocratica famiglia papalina, la quale (come tutte le famiglie dell’aristocrazia nera) teneva oscurate le persiane, in segno di lutto a favore del Pontefice, durante gli anni dell’occupazione sabauda della capitale: è una protesta contro gli invasori mal graditi. Era stato suo nonno Marcantonio a dare lustro ai Pacelli, lasciando la natia Onano — piccolo borgo del viterbese —, nel 1819 per seguire a Roma uno zio Cardinale. Quando nel 1848 i mazziniani proclamano la repubblica romana, Pius IX scappa a Gaeta e Marcantonio lo segue: sarà la sua fortuna. Due anni e Papa Ferretti torna trionfalmente a Roma, nominando suo nonno membro del Concilio di Epurazione; le gazzette scrivono: «la città è finalmente pulita di ogni sozzura mazziniana». Il nonno del futuro Pontefice fonda L’Osservatore Romano, vuole un foglio combattente in difesa della cristianità. Ma gli eventi proseguono senza pietà: il 20 settembre del 1870, i piemontesi conquistano Roma, l’ultimo lembo terrestre dello Stato Pontificio, e Pius IX si auto-proclama prigioniero in “Vaticano”, promulgando l’inflessibile non-expedit, il divieto tassativo per i cattolici di partecipare alla politica attiva del Regno; le ferite tra Stato e Chiesa sono profondissime. Tre anni dopo la morte del Pontefice, le sue spoglie sono trasferite alla Basilica di San Lorenzo, ed una corte massonico-mazziniana si avventa sul corteo funebre per gettare la salma del beato Ferretti nel Tevere. All’epoca di questi lugubri fatti, il futuro Pius XII ha cinque anni e l’aver riportato tali accadimenti è fondamentale per capire la formazione culturale di Pacelli, l’humus nel quale è vissuto, l’aria che ha respirato.

Eugenio cresce stentatamente, «mingherlino e pelle e ossa», ma uno dei suoi giochi preferiti è far finta di celebrare Messa; studia violino ed ha una grande passione per le musiche romantiche tedesche; le sue pagelle sono un’impressionante sfilata di nove e dieci. Ad Onano, sulle rive del lago di Bolsena, conosce Lucia, una ragazza a cui dedicherà un sonetto: «ella è verginella, grata, dolce, pietosa, docile, pura, rifulge qual stella per virtude e per beltà», ma arriva l’ora delle scelte ed Eugenio sceglie di dire Messa e questa volta non sarà un gioco. Il 2 aprile del 1899 diviene sacerdote all’età di ventitré anni e subito sotto la guida del Cardinale Pietro Gasparri (1852 – 1934), inizia il suo cursus honorum nella Curia Romana. L’Osservatore Romano scrive: «è un giovane di cui è facile prevedere una carriera ammirabile al servizio di Dio e della Chiesa». Il 1899 è anche l’anno in cui nasce la FIAT con appena 50 operai e appena otto auto prodotte: il Regno d’Italia entra nella modernità e su di essa il Paese cerca di attuare una liberalizzazione nella politica, nella ricerca e nella scienza; su questa modernità, il nuovo Papa – il sanguigno ed energico Pius X (Pio X, 1835 – 1914) – ha molte riserve: «il modernismo – decreta Papa Sarto – è la sintesi di tutte le eresie».
Nel 1910 vi sarà il primo incarico ufficiale del giovane Pacelli: è a Londra e presenzia l’incoronazione di Re Giorgio V (George Frederick Ernest Albert, 1865 – 1936) come rappresentante ufficiale del Papa di Roma. La cerimonia che apparve agli occhi dell’aristocratico romano, fu quella di una corte che rispecchiava ancora la potenza delle Monarchie in Europa, prima del crollo definitivo del Trono e dell’Altare appena quattro anni dopo. In seguito continua la sua ascesa: Cameriere segreto, Monsignore, Prelato domestico, finché non arriva la Grande Guerra del 1914-18, che vide il Regno d’Italia subentrare con l’Intesa un anno dopo, nel 1915. Nel frattempo Pius PP. X morirà nell’estate del’inizio del conflitto, dicono di crepacuore: ripeteva sconsolato «verrà il guerrone». L’arcivescovo di Bologna Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa (1854 – 1922) diventa Benedictus PP. XV (Papa Benedetto XV): un Papa nuovamente senza più la forza temporale, che deve necessariamente usare l’arma della diplomazia per essere ancora una volta al centro della geopolitica. Pacelli sarà inviato inizialmente come “autorevole persona” all’Imperatore d’Austria-Ungheria Franz Joseph I (1830 – 1916) e successivamente all’Imperatore di Prussia Wilhelm II von Hohenzollern (1859 – 1941), il quale asserì su di lui: «Questo Pacelli, vale più di un esercito». Durante la guerra Benedictus XV inoltra appelli di pace e si mantiene neutrale, fino alla sua frase più famosa «questa guerra è un’inutile strage», monito preso seriamente solo dall’Imperatore dell’Austria-Ungheria Karl I d’Asburgo-Lorena (1887 – 1922), oggi beato per aver seguito le parole del Pontefice. Il Papa promuove Pacelli Nunzio Apostolico in Baviera e pochi anni dopo, il 13 maggio del 1917, Eugenio è ordinato Vescovo all’età di 43 anni (e elevato in pari tempo arcivescovo recante titolo di Archidioecesis Sardiana in partibus): una strana coincidenza o forse un segno. Quello stesso giorno a Fatima una misteriosa signora annuncia a tre pastorelli un messaggio celeste, il quale attraverserà come un filo rosso, tutta la storia del XX Secolo, per spingersi fino ai nostri giorni.
Il 24 ottobre del 1917 con la disfatta di Caporetto il Regio Esercito è allo sbando e gli austro-tedeschi avanzano per 150 km all’interno della linea del fronte italiano: 11:000 soldati morti, 29.000 feriti, 280.000 prigionieri e 350.000 sbandati. Nel caos il Vescovo Pacelli si reca dietro le nuove linee del fronte e apporta conforto ai soldati, si adopererà come può per i feriti più gravi, parla con chi ha subito traumi psichici, per ricordarci che il sacerdote ha sempre avuto nei confronti dei malati d’anima un atteggiamento salutare, benedicente e confortante, ponendosi come vero conduttore per eccellenza della Grazia, poiché egli è il vertice di tutte le grandezze create, poiché opera il ponte spirituale tra Dio e i suoi figli: oggi questa figura è soppiantata dallo psicologo che “offre” come rimedio all’anima psicoterapie e psicofarmaci.
Per Pacelli arriva un altro appuntamento con la storia, sembra essere il suo destino: mai nell’epoca moderna, un futuro Papa si era trovato coinvolto in prima persona in tanti e decisivi eventi e questa volta incontra faccia a faccia la Rivoluzione dei Soviet. La Germania è in ginocchio, da Berlino a Monaco avanza inarrestabile il movimento comunista: la chiamano “Rivoluzione spartachista”. A Monaco di Baviera il 19 aprile 1919, presso la sede della Nunziatura, gli spartachisti accerchiano il palazzo e una giovane suora Pascalina Lehnert si interpone tra il manipolo e il Nunzio Pacelli che sbarrava loro la strada. Il capo ebreo del nucleo comunista, di nome Seidl, affronta Eugenio a muso duro «togliti di mezzo Prelato» e gli punta la rivoltella sul petto: il Nunzio è terreo, ma non cede e il capo-manipolo non va oltre la minaccia, facendo ritirare i rivoluzionari per convogliarli altrove. Scriverà Pacelli: «Sono dei veri e propri russi bolscevichi»! Eugenio ha visto in faccia quello che dicono essere il nuovo anticristo: il comunismo.
Nel frattempo a Monaco si è trasferito un giovane pittore austriaco di nome Adolf Hitler (1889 – 1945) ed è in cerca di fortuna: Pacelli lo vede all’opera ed a lui si riferisce quando scrive «è da condannare l’estremismo di certa gente non bavarese» – ricordiamo questa frase: non afferma “Adolf Hitler”, ma “certa gente”, non dice “austriaco”, ma “non bavarese” e sarà questa la raffinata arte diplomatica che Eugenio Pacelli userà durante tutto il suo difficilissimo pontificato.

Il Segretario di Stato Eugenio Pacelli ha lavorato dal 1917 al 1929 come Nunzio apostolico a Monaco e Berlino. Nell’ottobre 1927, lascia il palazzo presidenziale del Reich a Berlino, dove si svolgono le celebrazioni per l’ottantesimo compleanno di Paul von Hindenburg.

Benedictus XV promuove ancora Eugenio il 22 giugno 1920, ora è Nunzio per tutta la Germania: Pacelli è organizzato, metodico, fa confluire grandi folle, è amato dai credenti cattolici e rispettato dai protestanti. Primo obiettivo di Adolf Hitler sarà quello di intercettare prima e organizzare poi le grandi masse dei cattolici tedeschi, ma Eugenio Pacelli sembra essere il vero leader carismatico della Chiesa tedesca. Il Vaticano, dopo la perdita del potere temporale, vuole trovare un modus vivendi con le nazioni, vuole stabilire patti che regolino e garantiscano l’esercizio del culto, fare proseliti, educare i giovani: è quella che verrà chiamata la “politica concordataria”. Chi meglio del poliglotta, diplomatico, aristocratico Nunzio a Berlino per questa missione. Pacelli tesse la sua tela e il 29 marzo del 1924 firma un concordato con la Baviera; l’anno successivo con il Baden e infine con la Prussia. Il giornale Deutsche Allgemeine Zeitung lo elogia «ha risolto in modo sovrano ogni difficoltà». Achille Ratti (1857 – 1939) è succeduto a Benedictus XV, diventando Pius PP. XI (Papa Pio XI), era prefetto della Biblioteca Ambrosiana, solo da poco Arcivescovo di Milano. Altro evento di rilevante importanza avviene l’11 febbraio del 1929 alle ore 12:00, quando il Segretario di Stato Cardinale Pietro Gasparri e il Capo del Governo del Regno d’Italia, Cavaliere Benito Mussolini, firmano il concordato tra Stato e Vaticano nella sala papale del Palazzo Apostolico Lateranense e quella data non è per caso: l’undici febbraio sarà parallelamente anche il giorno della prima apparizione della Vergine di Lourdes. A nome del Vaticano aveva brillantemente condotto le trattative con Mussolini, l’avvocato Francesco Pacelli (1872 – 1935), fratello maggiore di Eugenio, insignito dal Pontefice Massimo con il blasone di marchese. Dal 1870 nessun Pontefice si era più affacciato in piazza San Pietro. Pius XI affermerà su Mussolini: «forse ci voleva un uomo come quello che la provvidenza ci ha fatto incontrare». In segno di riconciliazione, il Re Vittorio Emanuele III, si reca in visita al Papa in Vaticano e questo concordato sembra vantaggioso per la Chiesa poiché pone fine alla ferita Risorgimentale, che faceva del Papa ancora un prigioniero a Roma. Autorizza la nascita dello Stato del Vaticano, ci sarà incertezza tra il nome “Santa Sede” e “Città libera del Papa”, ma alla fine prevarrà “Città del Vaticano”, con il Re sabaudo che ha deliberatamente abdicato ad uno stralcio del suo territorio nazionale e laico. Gli sforzi dei predecessori di Pius XI, partendo da Pius IX, hanno ripagato la Chiesa di un suo nuovo Stato indipendente e libero, poiché per i Savoia diveniva fondamentale, per il collante del Paese, essere riconosciuto dal Papa come Re legittimo e autorevole, dopo le tre scomuniche di Vittorio Emanuele II. Il 16 dicembre del 1929, il Papa richiama Pacelli a Roma e lo eleva alla porpora cardinalizia, nel rimpianto generale dei tedeschi: Papa Ratti lo nomina anche Segretario di Stato, a cinquantatré anni è l’uomo più potente del Vaticano, dopo il Santo Padre, naturalmente. Di fronte a Pacelli si erge un unico nemico, il comunismo nelle sue diverse incarnazioni. Dal 1920 al 1924 in Messico una rivoluzione socialista aveva insediato un governo anticlericale con a capo Tomás Garrido Canabal (1891 – 1943), il quale in spregio alla Chiesa chiamò i suoi tre figli Lenin, Satan e Lucifer e successivamente espulse tutti i sacerdoti che rifiutavano di sposarsi: il culto è praticamente impossibile. Dice Pius XI «il Messico è totalmente infeudato dalla Massoneria». In Unione Sovietica il giornale della Pravda chiede la condanna a morte del Papa, le Chiese sono requisite o abbattute, le immagini sacre distrutte, i sacerdoti sono perseguiti per il reato di “istruzione illegale di catechismo”, le reliquie dei Santi vengono ingiuriate e profanate. Il Vaticano denuncia: «dal 1917 al 1930 sono scomparsi misteriosamente 250.000 cattolici, i preti sono passati da 255 a 70, le 3.300 chiese e le 200 cappelle sono ridotte a numero di due». Per la chiesa di Roma è un secondo martirio, che vede uniti dalla sofferenza ortodossi e cattolici, paragonabile al grande bagno di sangue di Gaio Aurelio Valerio Diocleziano (284 – 305 d.C.), ma il Segretario di Stato Pacelli deve anche guardarsi in casa, poiché Mussolini presenta il conto: decreta lo scioglimento di tutte le organizzazioni giovanili non-fasciste, tra cui ricade l’Azione Cattolica, quasi un porto franco per dissidenti e oppositori. Il Vaticano e Pacelli fanno orecchie da mercante, poiché tutti conoscono oramai – mandano voce al Duce – che P.N.F. (Partito Nazionale Fascista), significa in realtà “per necessità familiare”. L’Osservatore Romano denuncia: «siamo vittime di sopraffazioni, devastazioni, profanazioni di crocifissi», ma Mussolini è irremovibile e Pius XI reagisce nel 1931 con l’Enciclica “Non abbiamo bisogno”: un atto di accusa contro le pretese del regime di egemonizzare l’educazione dei giovani; il livello dello scontro verbale supera i limiti di guardia, ma Pacelli non avendo il carattere sanguigno del Papa, lavorando dietro le quinte ottiene un risultato prestigioso e importante: convince il regime a non sciogliere l’azione cattolica, purché essa rimanga fuori da ogni attività politica.

Due anni più tardi il 20 luglio del 1933, presso il Palazzo del Laterano, il Cardinale Pacelli firma il concordato (Reichskonkordat) con la Germania nazionalsocialista di Hitler: il concordato fra i due paesi è tuttora valido. I principali punti del concordato sono: Il diritto di libertà della religione cattolica romana (art. 1); i concordati di Stato con Baviera, Prussia e Baden rimangono validi (art. 2); libera corrispondenza tra la Santa Sede e i cattolici tedeschi (art. 4); il diritto per la Chiesa di riscuotere la tassa ecclesiastica (art. 13); il giuramento di lealtà dei vescovi (art. 16); l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole (art. 21): gli insegnanti di religione cattolica possono essere assunti solo tramite l’approvazione del vescovo (art. 22); protezione delle organizzazioni cattoliche e libertà di pratica religiosa (art. 31); i chierici non possono essere membri di partiti (art. 32). Un accordo di fondamentale importanza in vista dell’arianesimo a cui parte del partito nazionalsocialista iniziava ad ispirarsi. Quando il governo nazista violò il concordato (in particolare l’articolo 31), vescovi e papato protestarono contro queste violazioni. Le proteste culminarono nell’enciclica Mit brennender Sorge del 1937.

Foto del Reichskonkordat dove il Cardinale Pacelli è attorniato da Monsignor Kars (ex- presidente del Centrum), Franz von Papen (1879 – 1969) e dai Monsignori Giuseppe Pizzardo (1877 – 1970), Alfredo Ottaviani (1890 – 1979) e Giovanni Battista Enrico Antonio Maria Montini (1897 – 1978).

Un uomo integèrrimo come l’Arcivescovo di Monaco, il Cardinale Michael von Faulhaber (1869 – 1952) scrive al Führer: «questa stretta di mano con il papato costituisce un fatto di immenso benefico significato, che Dio conservi il Cancelliere del Reich al nostro popolo»; poi esorta anche i fedeli a votare “Sì” al plebiscito voluto da Hitler per approvare il suo operato e il 12 novembre del 1933, voteranno per il Cancelliere tedesco più del 92% dei tedeschi. Il Führer confida ai suoi come «sono uno dei pochi uomini della storia ad avere ingannato il Vaticano». Poche settimane e il regime scioglie tutte le organizzazioni cattoliche tedesche e Hitler affermerà ancora: «sarà il nazionalsocialismo ad educare la gioventù ai veri valori e questi valori non potranno che essere anticristiani». Ma perché tanta fretta negli accordi con Hitler? Dietro questa ansia concordataria c’è l’urgenza, per la Chiesa di Roma, di ritrovare ruolo e centralità nella politica internazionale, poiché piazza San Pietro non è più uno dei crocevia del mondo: Pacelli lo ha compreso e diventa uno dei primi viaggiatori della Chiesa moderna. Nel settembre del 1934, Eugenio Pacelli presenzia al Congresso Eucaristico a Buenos Aires e in Argentina davanti a più di un milione di fedeli è accolto come un Re, divenendo primo interprete di quello che si chiamerà “Cattolicesimo planetario”, primi esempi dei grandi raduni cattolici in tutto il mondo. Nel 1935 Pacelli è a Lourdes per il solenne Giubileo della redenzione che lo videro parlare davanti a 300.000 pellegrini: intorno a lui 5 Cardinali, 20 Arcivescovi, 50 Vescovi, quasi un’icona della Chiesa che vuole tornare ad essere trionfante. Nell’ottobre del 1936 parte per l’America da Napoli ed è accolto dal presidente Roosevelt alla Casa Bianca. Incontra Joseph Patrick Kennedy (1888 – 1969) uomo di spicco della società americana che lo presenta nelle alte sfere degli Stati Uniti. Pacelli si sposta in aereo: Washington, Chicago, St.Francisco, Los Angeles – tanto da essere denominato “il Cardinale volante”, ed un giornale scrive «quale contrasto con il carro trainato dai buoi sul quale viaggiavano i primi missionari californiani». Ancora nel luglio del 1937 è in Francia, a Liseaux, per inaugurare la Basilica consacrata a Santa Teresa del Bambin Gesù; il presidente francese offre in suo onore un festoso ricevimento all’Eliseo, è un viaggio che lascerà il segno: Pacelli pronuncerà una dura requisitoria contro l’idolatria della stirpe. Perfino l’Humanité – il quotidiano comunista – plaude a quelle parole che per molti condannano le leggi razziali vigenti in Germania.

Il Ministro tedesco della propaganda Paul Joseph Goebbels (1897 – 1945) lo attacca personalmente «fa accordi con i socialisti francesi» lo accusa, ma il Cardinale Pacelli ha le spalle larghe ed ha solo anticipato la pubblica condanna del Pontefice. Il 14 marzo dello stesso anno Pius XI promulga l’Enciclica Mit brennender Sorge: il Pontefice romano condanna il provocante neo-paganesimo imperante in Germania, deplora certi banditori moderni che perseguono il falso mito della razza e del sangue; l’Enciclica attacca poi le liturgie del Reich «queste cerimonie – si legge – sono false monete». L’Enciclica denuncia i governanti tedeschi, poiché si legge «con ripugnante superbia, stoltamente, rappresentano l’umiltà cristiana come avvilimento e meschinità». Tra gli autori del testo vi è anche il Cardinale Eugenio Pacelli: sembrano lontanissimi i tempi del Concordato, eppure sono passati solo quattro anni. La reazione è violenta, Goebbels annuncia alla radio: «7.000 religiosi sono sotto processo per reati sessuali» e lo scontro si alza ancora quando il Vaticano richiama quei Prelati troppo indulgenti con il regime nazionalsocialista. Il 12 marzo del 1938 il Reich annette la cattolica Austria e la croce uncinata è issata sul campanile della Cattedrale di Vienna. L’Arcivescovo Theodor Innizer (1875 – 1955) proclama: «i preti e i fedeli devono sostenere senza riserve il Führer, la sua lotta contro il bolscevismo, risponde ai disegni della provvidenza». Pacelli convoca Innizer a Roma e gli consegna una nota ufficiale di duro biasimo. I rapporti tra Santa Sede e Terzo Reich sono forse al punto più basso. Dal tre all’otto maggio del 1938 Hitler è a Roma – capitale del nuovo Impero italiano – e l’Osservatore Romano commenterà come «il Papa è partito per Castel Gandolfo – aggiungendo non senza ironia –, l’aria dei castelli romani gli fa molto bene alla salute», il giornale non fa il minimo accenno alla visita del Capo del Reich e come se non bastasse Pius XI ordina «i musei Vaticani devono restare chiusi per tutti», si specifica nella nota. Papa Achille Ratti accusa: «a Roma è stata inalberata l’insegna di un’altra croce che non è certo la croce di Cristo». L’intransigente durezza del Papa, suscita una reazione furiosa di Hitler, il quale vieta ai cattolici tedeschi di partecipare al congresso Eucaristico che si tiene a Budapest in quegli stessi giorni: presenzia “il cardinale volante” Eugenio Pacelli, ed è ancora un tripudio di folla e sarà una straordinaria processione notturna sul Danubio.

Arriviamo all’inverno del 1938 e un’onda lunga di fango, melma e detriti sommerge la capitale della cristianità: quasi un’anticipazione degli eventi del sei ottobre dello stesso anno, quando il Gran Consiglio del fascismo promulga le leggi razziali, una delle pagine più vergognose della storia d’Italia. In privato Pius XI sbotta: «ma perché l’Italia si è messa disgraziatamente a imitare la Germania»? Mussolini è fuori di sé e minaccia «basterebbe un mio cenno per scatenare tutto l’anti-clericalismo del popolo italiano il quale ha dovuto faticare non poco per ingurgitare un Dio ebreo». Il Pontefice proclama «l’antisemitismo è un movimento odioso, siamo tutti spiritualmente dei semiti» e Mussolini lancia un ultimatum: «se il Papa continua a parlare, perderò la pazienza e allora farò il deserto»; allora il Pontefice si rivolge al Re Vittorio Emanuele III, asserendo che il Duce vuole far saltare il concordato. Trapelata la notizia, Mussolini ironizza al suo Ministro degli Esteri Galeazzo Ciano (1903 – 1944): «spero proprio che questo Papa muoia al più presto». Il destino, ironia della storia, lo ascolterà poiché Pius PP. XI non sta bene, ma è deciso ad andare avanti, come se la Chiesa preparasse i suoi eserciti. Accade un fatto davvero poco conosciuto, quasi un giallo, il mistero dell’Enciclica scomparsa: Pius XI in accordo con Pacelli, incarica il gesuita John LaFarge Jr. (1880 – 1963) di preparare il testo di una Enciclica chiedendo una condanna chiara del nazismo e della sua religione neo-pagana. Una rottura della cui portata politica, spirituale e teologica sono tutti consapevoli. Alla fine del settembre del 1938 LaFarge si reca a Roma con il testo pronto, ma anziché inviarlo direttamente al Papa lo consegna al Padre Generale della Compagnia di Gesù, questi lo passa solo l’otto ottobre ad un autorevole redattore della civiltà cattolica. Pochi giorni e Goebbels scatena la notte dei cristalli: è una caccia esplicita e spietata agli ebrei. Pius XI si racconta, chiederà la consegna del testo dell’Enciclica, ma quei fogli arriveranno sulla sua scrivania solo alla fine di gennaio: troppo tardi, pochi giorni ed un attacco cardiaco stroncherà Papa Ratti. Circolano strane voci, «c’è aria torbida» – annota Ciano nei suoi diari; si dice che il Duce abbia il timore di essere scomunicato e trapelano voci che egli si sia rivolto per una missione di fiducia “molto speciale” al professore Francesco Petacci, il quale oltre ad essere il padre di Claretta – la sua giovane amante – e anche il medico del Papa. Quale sia lo scopo di questa missione e se la missione esista o meno non è documentato ad oggi da nessuna parte. Certamente con la dipartita di Pius XI anche la sua Enciclica pronta per la firma è riposta in un faldone e archiviata per sempre.

Morto il Papa, Pacelli diviene Camerlengo – colui che sovrintende alla preparazione del Conclave. Nel pomeriggio del primo marzo, un mercoledì alle ore 11:00, suona una piccola campanella e i Cardinali entrano nel Sacellum Sixtinum, lo stesso giorno in cui Eugenio compie 63 anni, come il numero dei Cardinali presenti, 35 sono italiani e per eleggere un nuovo Pontefice occorrono 42 voti: al primo scrutinio ottiene 36 suffragi, al secondo scrutinio Pacelli guadagna 5 voti, infine al terzo la sua elezione è trionfale, netta – si chiamerà Pius PP. XII (Papa Pio XII) e alla domanda di rito risponde «Accipio in crucem» (accetto come una croce), una impressionante, profetica premonizione. Il Cardinale Camillo Caccia-Dominioni (1877 – 1946) annuncia il 260° Vicario di Cristo dal balcone di San Pietro: «habemus Papam» – è dal 1670 che non viene eletto un Papa romano di Roma. Il 12 marzo del 1939 vi sarà la Solenne Incoronazione e il nuovo Papa si compiace che nel suo stesso cognome sia contenuta la parola pace: pax-coeli, la pace del cielo. Sono presenti alla cerimonia 40 delegazioni ufficiali da tutti i governi del mondo, ed è assente la delegazione del Terzo Reich. Il settimanale delle Schutzstaffel (SS) Das Schwarze Korps scrive lapidario: «in lui si possono riporre ben poche speranze»; il Ministero degli Esteri del Reich, incarica l’Ambasciatore presso la Santa Sede di portare al nuovo Papa, le congratulazioni del Führer, ma solo oralmente. In una nota riservata si precisa: «in considerazione del ben noto atteggiamento dell’ex-Cardinale Pacelli verso la Germania e il movimento nazionalsocialista, i complimenti non devono essere formulati in maniera particolarmente calda».

Pius PP. XII saluta la folla in Piazza San Pietro per la sua elezione a 260°Vicario di Cristo nel 1939.

La situazione precipita e da Berlino il Nunzio Apostolico tedesco Cesare Vincenzo Orsenigo (1873 – 1946) scrive: «i tedeschi sono tutti pronti alla guerra con una freddezza terrificante. Va incontro alla guerra marciante, quasi esultante, un popolo di ben ottanta milioni di tedeschi, armati fino ai denti». Pacelli compie un ultimo tentativo per salvare la pace e invia un messaggio a Hitler, gli ricorda gli anni passati con piacere in Germania, lo esorta a dedicarsi al vero benessere spirituale del popolo tedesco, ma per tutta risposta la notte del 23 agosto 1939, Ulrich Friedrich Wilhelm Joachim von Ribbentrop (1893 – 1946) e Vyacheslav Mikhailovich Molotov (1890 – 1986) firmano un patto di non aggressione: Hitler e Stalin si sono alleati – Pius PP. XII è esterrefatto. Papa Pacelli lancia allora un messaggio al mondo intero il 24 agosto, affermando come «nulla è perduto con la pace, tutto può esserlo con la guerra», una frase che rimane scolpita nella storia: c’è tutta la potenza e l’impotenza del Papato. La risposta tedesca non tarda ad arrivare il 20 settembre, alle ore 15:25, la Wehrmacht invade la Polonia; alle 6:00 il Papa viene informato e si racconta, non riesca a trattenere le lacrime. Il 20 ottobre 1939 Pius XII proclama l’Enciclica Summi Pontificatus: è una condanna, seppur indiretta, dell’idolatria dei totalitarismi, la condanna verso un mondo che ha abbandonato le leggi di Dio, per sostituire quest’ultimo con il dominio della macchina, l’esaltazione della tecnica, tristi alleati del male che hanno condotto l’uomo dentro il nulla – l’uomo moderno non ha risposto al richiamo di Dio, è stato sedotto dal neo-paganesimo innaturale e ora è guerra, sangue, dolore, morte – quasi con malefica voluttà. La preoccupazione di Pius XII ora è per l’Italia, poiché il rischio di essere trascinati in una guerra è alta. Pacelli spera nel Re e in Galeazzo Ciano per raffreddare le mire di Mussolini e scongiurare un’entrata in guerra. Invita SAR Vittorio Emanuele III in Vaticano per discutere e dopo otto giorni restituisce la visita: è un fatto storico, poiché per la prima volta dal 1870 un Pontefice torna al Quirinale, per chiedere la neutralità dell’Italia. Mussolini è furente per questa strana alleanza e proibisce ai media di riportare qualsiasi dichiarazione espressa pubblicamente in politica internazionale e pacifismo da Pacelli. Ma il Pontefice procede con il suo piano politico, senza timori: il 24 dicembre lancia un radio-messaggio natalizio con tono accorato e commosso, stigmatizza le atrocità della guerra, ma la condanna più dura è per l’Unione Sovietica, la quale viene accusata di avere premeditato l’aggressione contro l’inerme e pacifica Finlandia; poco racconta dell’invasione della Polonia da parte delle truppe tedesche. Non vi è dubbio che per la Chiesa e per Pacelli il nemico numero uno della cristianità sia il comunismo. L’undici marzo 1940 Pius XII riceve in visita von Ribbentrop ed a questi gli rimprovera apertamente l’inammissibile alleanza con i sovietici; il Ministro degli Esteri non risponde e esce dalla stanza senza inginocchiarsi, né salutare. Il Papa compie un tentativo anche con Benito Mussolini, inviandogli un messaggio autografo dal tono amichevole, si rivolge con il “Tu”, pregandolo di evitare «più vaste rovine e più numerosi lutti» e il Duce sbotta nel privato: «questi preti vogliono rammollire, svirilizzare il popolo italiano». A partire dal 10 maggio 1940 la Wehrmacht invade Belgio, Olanda e Lussemburgo. Pius XII è fortemente impressionato e batte a macchina tre messaggi di solidarietà; l’Ambasciatore belga commenta «un conto è la simpatia per chi soffre e un’altra la condanna per il delitto compiuto». È la maledizione della neutralità: ciò che è poco per gli uni è troppo per gli altri. Solo l’Osservatore Romano pubblica quei messaggi di solidarietà, vendendo quel giorno 100.000 copie: le edicole assalite dalle squadracce fasciste vengono bruciate. Sarà con questo clima che il 10 giugno anche il Regno d’Italia entra in guerra di fianco della Germania neo-pagana – Papa Pacelli è sempre più solo. «Nulla lasciammo di intentato» affermerà, riferendosi molto probabilmente all’operazione – denominata dalla Gestapo – “Orchestra nera”, dell’autunno 1939 e primavera del 1940, dove alcuni pastori protestanti e alcuni preti cattolici misero un piano per neutralizzare Hitler e nel complotto vi furono molti ufficiali prussiani e aristocratici capeggiati dal leader dell’intelligence tedesca Wilhelm Franz Canaris (1887 – 1945) e dal generale Ludwig August Theodor Beck (1880 – 1944); proprio quest’ultimo conoscente di Pacelli ai tempi della nunziatura di Berlino. I congiurati chiedono al Papa di essere il garante dell’operazione e operare come intermediario con gli inglesi: Pius XII accetta, poiché tale soluzione è coerente con la Dottrina Cattolica riguardante le soluzioni da ottemperare verso una dittatura e salvare il mondo da certo inferno. Gli inglesi, di contro, non credono alla fattibilità del colpo di mano o non si fidano e de facto l’operazione fallisce.

Gli anni della guerra sono anche quelli dove Pacelli ringrazia la Nobiltà Romana, tramite diverse Allocuzioni, la quale si impegnò molto negli aiuti economici verso la popolazione civile. Pius PP. XII riconosce alla nobiltà un’importante e peculiare missione nel contesto della società contemporanea, missione che compete alle altre élites sociali. In quel Papa c’era un qualcosa che faceva pensare alla nobiltà: la sua figura alta e slanciata, il suo portamento, i suoi gesti, perfino le sue mani. Quel Pontefice, di spirito così universale e così amico dei piccoli e dei poveri, era allo stesso tempo molto romano e rivolgeva la sua attenzione, la sua considerazione e il suo affetto anche all’aristocrazia romana nell’Allocuzione del 26 dicembre 1941: «si; la fede rende più nobile la vostra schiera, perché ogni nobiltà viene da Dio, Ente Nobilissimo e fonte di ogni perfezione. Tutto in Lui è nobiltà dell’essere. […] Dunque il modo della nobiltà di una cosa corrisponde al modo con cui possiede l’essere; giacché una cosa si dice che è più o meno nobile, secondo che il suo essere si restringe a qualche grado speciale maggiore o minore di nobiltà. […] Anche voi avete da Dio l’essere; Egli vi ha fatti, e non voi stessi. ‘Ipse fecit nos, et non ipsi nos’ (Ps. 99,3). Vi ha dato nobiltà di sangue, nobiltà di valore, nobiltà di virtù, nobiltà di fede e di grazia cristiana. La nobiltà di sangue voi la mettete al servigio della Chiesa e a guardia del Successore di Pietro; nobiltà di opere leggiadre dei vostri maggiori, che nobilita voi stessi, se voi di giorno in giorno avrete cura di aggiungervi la nobiltà della virtù […]. Tanto degna di lode riluce la nobiltà congiunta con la virtù che la luce della virtù spesso eclissa la chiarezza della nobiltà; e nei fasti e negli atri di grandi famiglie unica e sola nobiltà resta talora il nome della virtù, come non dubitò di affermare anche il pagano Giovenale (Satyr. VIII, 19-20): ‘Tota licet veteres exornent undique cerae atria, nobilitas sola est atque unica virtus’ (Benché le vecchie figure di cera ornino dappertutto i palazzi delle grandi famiglie, l’unica ed esclusiva loro nobiltà è la virtù)».

Pius PP. XII nel 1939 viene portato dalla Corte Romana sulla sedia gestatoria; intorno la Guardia Nobile, l’antico corpo di Cavalleria pesante, all’epoca appiedato, composto unicamente da membri dell’aristocrazia romana, che fungeva da guardia del corpo del Pontefice Massimo. Il Corpo militare è stato soppresso, così come la sedia gestatoria, dopo il Concilio Vaticano II nel 1965.

Nel frattempo si accende nell’Europa occupata, l’antisemitismo ebraico. Il 12 maggio de 1942 Don Pirro Scavizzi (1884 – 1964) scrive a Roma: «la lotta anti-ebraica è implacabile con deportazioni ed esecuzioni di massa»; il 29 agosto l’Arcivescovo metropolita di Leopoli scrive al Vaticano: «non passa giorno senza che si commettano i crimini più orrendi, gli ebrei sono le prime vittime»; lo stesso Monsignor Montini (futuro Paulus VI) scrive: «i massacri degli ebrei hanno raggiunto proporzioni e forme esecrande spaventose, incredibili eccidi sono operati ogni giorno». Il 7 ottobre del 1942 ancora Don Scavizzi afferma «l’eliminazione degli ebrei, con le uccisioni di massa è quasi totalitaria, senza riguardo ai bambini, nemmeno se lattanti – si dice che 2.000.000 di ebrei siano stati uccisi». L’ambasciatore inglese presso la Santa Sede chiede al Pontefice una pubblica denuncia, il Papa è incerto, ma i fatti incalzano: l’attesa è enorme. Il 24 dicembre del 1942 Pius XII inoltra un radiomessaggio natalizio «questo voto l’umanità lo deve alle centinaia di migliaia di persone le quali senza veruna colpa propria, talora solo per ragioni di nazionalità o di stirpe, sono destinati alla morte o ad un progressivo deperimento». Questo sarà il primo dei due pronunciamenti ufficiali, parla secondo il suo stile: mai è pronunciata la parola “nazismo”, mai la parola “ebrei”. Il 5 maggio del 1943 la stessa segreteria di Stato compila una nota agghiacciante, si legge: «situazione orrenda: in Polonia stavano prima della guerra, circa 450.000 ebrei. Si calcola che non ne rimangano nemmeno 100.000. Non è da dubitare che la maggioranza sia stata soppressa. Si racconta che siano chiusi parecchie centinaia alla volta in cameroni dove finirebbero sotto l’azione di gas, trasportati in carri bestiame – ermeticamente chiusi – con pavimento di calce viva». Ancora un messaggio al mondo di Papa Pacelli sulla questione: «l’animo nostro risponde con sollecitudine particolarmente premurosa alle preghiere di coloro che a noi si rivolgono con occhio di implorazione ansiosa, travagliati – come sono – per ragione della loro nazionalità o della loro stirpe, da maggiori sciagure o da gravi dolori e destinati – talora – anche senza colpa, a costrizioni sterminatrici». Per la seconda volta due parole decisive non vengono pronunciate “ebrei” e “nazismo”, perché? Il linguaggio innanzi tutto: il Papa è vissuto all’interno del mondo della diplomazia ed egli pensa che quanto detto in quel linguaggio sia chiaro e sufficiente; i suoi pronunciamenti sono considerati “troppo poco” dagli Alleati e “troppo” dall’Asse. Da un rapporto del Reichssicherheitshauptamt, l’ufficio centrale per la sicurezza del Reich fa accuse pesantissime: «egli virtualmente accusa il popolo tedesco di ingiustizia nei riguardi degli ebrei». Non è inoltre meramente una questione di puro linguaggio, difatti per la religione cattolica il Papa è “Padre di tutti” e non può prendere posizione fra i suoi figli in lotta, la Chiesa di Roma è universale e per questo neutrale. Sulla scelta di neutralità del Vaticano, un peso enorme fu dato dai 45.000.000 di cattolici tedeschi. Quali ripercussioni per un eventuale conflitto con il Terzo Reich? Quali le imprevedibili conseguenze? Forse una persecuzione? Forse un altro drammatico scisma? Vi è un altro tassello che aiuta a capire l’atteggiamento neutrale di Pacelli, per il quale il nemico storico della Chiesa è il bolscevismo e l’Unione Sovietica: questi ultimi – a differenza dei nazisti – sbarrano ai fedeli qualsiasi libertà di culto e distruggono gli edifici religiosi, di qualsiasi natura. Infine il Pontefice è figlio del suo tempo e proviene da una tradizione cristiana fortemente permeata di ostilità anti-ebraica: nazismo e fascismo strumentalizzano questa tradizione. Hitler afferma: «per 1500 anni la Chiesa Cattolica ha considerato gli ebrei come esseri nocivi, anche io li considero nocivi e forse sto rendendo alla cristianità, il più grande servizio». Un brevissimo, ma indispensabile passo indietro ci può aiutare per capire le affermazioni del dittatore tedesco. Da sempre nella storia della chiesa, gli ebrei per essere accettati devono mantenere un ruolo subordinato a quello dei cristiani, ma dopo il XII secolo, la situazione va peggiorando: il secondo Concilio Laterano del 1179 stabilisce che il giuramento degli ebrei non vale come quello dei cristiani ed è loro proibito di possedere terre o abitazioni. Nel 1215 il quarto Concilio Lateranense decreta che l’ebreo debba portare un segno distintivo: un cappello o una rotella gialla sul vestito. È in questi anni che si sviluppa maggiormente il sacrificio rituale ebraico, il quale prevede il rapimento dei bambini cristiani e la loro uccisione per avere il sangue necessario per il loro rito di purificazione e per ripetere ritualmente l’uccisione di Cristo. Con il Trecento l’Inghilterra e la Francia espellono gli ebrei e nel 1492 anche la Spagna impone agli ebrei la scelta tra conversione ed esilio. I marranos, cioè i convertiti, sono distinti in base al sangue: è una delle distinzioni razziali storiche. Nel 1500 la Chiesa istituisce il ghetto, dove gli ebrei devono vivere rinchiusi dal tramonto all’alba, senza poter possedere nessuna proprietà, allontanati dalla maggior parte dei mestieri. Dopo l’Unità d’Italia, l’ostilità della Chiesa si accentua ancora di più: gli ebrei, non a torto, vengono associati ai massoni, ai rivoluzionari e sono visti come i principali artefici da condannare. Fin dall’inizio del Novecento la Chiesa e i Gesuiti attaccano con virulenza gli ebrei. Nel 1885 l’Osservatore Cattolico scrive: «questa bella razza di individui arriva al numero di 6.377.602, dei quali in Italia ve ne sono 26.289, imperò che, sono églino i nostri padroni, ossia i padroni di 30.000.000 di anime, come sono i padroni in Austria-Ungheria, in Germania, in Francia e dappertutto quasi. L’ebreo domina le Loggie, cioè la Massoneria e ispira il liberalismo rivoluzionario; l’ebreo poi è padrone dell’oro, l’oro è del mondo signor, dunque l’ebreo è il sovrano universale». La rivoluzione bolscevica accentua questa paura della Chiesa. Una rivista cattolica pubblica nel 1922, una statistica dalla quale risulta che ben 477 funzionari statali sovietici su 545 sono ebrei e ben 17 Commissari del Popolo su 21 sono sempre ebrei. Ma a determinare le scelte di Pius XII contribuisce anche un’altra drammatica circostanza: in Olanda, nell’estate 1942, i rappresentanti della Chiesa cattolica e protestante inviano un telegramma di biasimo al comandante delle SS contro la persecuzione degli ebrei e annunciano una pubblica condanna. Il Reichskommissar avverte: «un’altra parola e i rastrellamenti saranno estesi a tappeto». La Chiesa Protestante per evitare la rappresaglia, rinuncia alla pubblica accusa, la Chiesa Cattolica no. I Vescovi olandesi pronunciano la condanna e le SS si scatenano: migliaia le vittime tra ebrei e cattolici. Qualcuno ha redatto anche una lugubre precisazione: a Roma sono stati salvati quasi il 90% degli ebrei, in Olanda – dove ci fu la condanna esplicita – solo il 20% è sopravvissuto. In Pius XII è forte il timore, forse la certezza, di aggravare la tragedia dei perseguitati a seguito di un pubblico pronunciamento. Anche questo è uno dei tasselli del “silenzio” pontificio. Ma per il Venerabile Eugenio Pacelli i problemi non sembrano avere fine: in Slovacchia uno dei fedeli alleati di Hitler porta il nome di Jozef Tiso (1887 – 1947), un prete cattolico, è Monsignore: il Parlamento slovacco ha 63 deputati e ben 16 sono religiosi – la Slovacchia è ribattezzata “Repubblica parrocchiale”. Tiso afferma: «il cattolicesimo e il nazismo hanno molti punti in comune, essi operano le mani nelle mani per riformare il mondo». La notizia giunge a Roma e Pius XII in persona minaccia di privare il prete del titolo di Monsignore, ma la cosa finisce in un nulla di fatto. Nessun provvedimento contro Tiso, uno dei più fanatici membri delle gesta di Adolf Hitler: nell’aprile del 1947 sarà processato per crimini contro l’Umanità e condannato a morte mediante impiccagione. Altro problema di Papa Pacelli è quello sulle conversioni forzate dei serbi ortodossi in Croazia. Il 10 aprile 1941, la Croazia si costituisce in Stato indipendente con a capo del Governo Ante Pavelić (1889 – 1959), il quale assume il titolo di “Poglavnik” – ovvero Duce –, militi fedelissimi sono gli Ustaša. Lo Stato ha 6.000.000 di abitanti in maggioranza di religione cattolico-croata, ma vi sono anche 2.000.000 di serbi ortodossi. Gli Ustaša pongono un ultimatum: o i serbi-ortodossi si convertono al cattolicesimo, o saranno messi a morte. Per chi rifiuta è la fine: secondo una stima, le vittime nel 1942 arrivano a più di 350.000 – note di protesta arrivano in Vaticano. Roma chiede spiegazioni al primate cattolico di Croazia Monsignor Alojzije Viktor Stepinac (1898 – 1960): quest’ultimo invia una missiva rassicurante e la questione viene ritenuta chiusa. La Chiesa del Pontificato di Pius XII ha compiuto uno sforzo straordinario durante la guerra ed ha perennemente condannato le stragi, con un ritorno macabro: 6 vescovi, 1932 preti, 580 religiosi, 113 chierici, 289 religiose perderanno la vita a causa delle persecuzioni naziste. Un esempio lo studiamo nel beato padre Otto Neururer (1882 – 1940), primo sacerdote ucciso in un campo di concentramento. L’austriaco è deportato a Dachau per aver celebrato un matrimonio misto non ariano e viene messo a morte per aver insegnato catechismo ad un compagno di Lager: viene crocifisso a testa in giù per 36 ore, poi finalmente rende l’anima a Dio. Il padre francescano polacco, oggi santificato, Maksymilian Maria Kolbe (1894 – 1941) viene deportato ad Auschwitz e morirà per aver chiesto di prendere il posto di un condannato, padre di famiglia, nella “cella della morte” – una botola sottoterra in cui si viene posti nudi, senza cibo e senza acqua, senza luce: due settimane, poi la fine; quando aprirono la cella, una guardia così lo descrive «la sua intera persona sembrava essere in uno stato di estasi: non dimenticherò mai quella scena finché vivrò». In questa lotta della cristianità cattolica non possiamo ricordare Angelo Rotta (1872 – 1965), il Monsignore che fece evacuare migliaia di profughi ebrei dalla Romania; o Monsignor Giuseppe Angelo Roncalli (futuro Ioannes PP. XXIII) che a Istanbul aiuta i convogli dei fuggitivi e poi ci sono le suore che nelle scuole di Assisi nascondono i bambini ebrei. Ci saranno 152 istituti religiosi che nella sola Roma hanno nascosto più di 4.000 ebrei. Il 19 luglio del 1943, in un afoso lunedì, alle 11.30 del mattino 500 B-24 Liberator americani rombano minacciosi su Roma: quattro incursioni e 1.200 tonnellate di esplosivo per l’obiettivo strategico dello scalo ferroviario di San Lorenzo. L’inferno cessa alle 14:00 e Pius XII poco dopo le 16.00 lascia il Vaticano per San Lorenzo, prelevando tutto il denaro contante disponibile: lo distribuirà agli sfollati. Ovunque manifestini lanciati dagli aerei statunitensi con scritto «volete morire per Mussolini o vivere per l’Italia della civiltà»? Pacelli a San Lorenzo si inginocchia e prega il Salmo 129, il De Profundis, poi torna in Vaticano dopo le 20:00 passate e solo allora si accorge che la sua veste bianca è macchiata di sangue. Pochi giorni e per Mussolini è l’inizio della fine, poiché il 25 luglio del 1943 al Gran Consiglio del Fascismo, l’ordine Grandi non lascia scampo al Duce: è sfiducia.

Papa Pacelli, prega il De Profundis a San Lorenzo nel 1943 davanti alla folla.

Il 4 agosto 1943 avviene il secondo bombardamento di Roma e Pius XII è ancora nei quartieri del Tuscolano, Appio Latino, Tiburtino, Casilino, Prenestino. L’otto settembre il generale Pietro Badoglio (1871 – 1956) firma l’armistizio con gli anglo-americani e il nove settembre, in assenza delle Camere e nell’impossibilità di legiferare il Re Vittorio Emanuele III trasla il governo a Brindisi, una città non ancora occupata dagli anglo-americani e abbandonata dai nazi-fascisti, e ripristina la giurisprudenza del Regno, ma per far ciò lascia Roma con tutta la famiglia reale. Il regio-esercito è privo di comandi e la città eterna viene occupata dalle truppe tedesche, le quali pongono un controllo davanti Piazza San Pietro, la linea di demarcazione è data dalla perimetrazione della piazza stessa: il confine di demarcazione tra il Regno d’Italia e la Città del Vaticano. Mussolini liberato da Hitler riorganizza i fedelissimi a Salò e chiede alla Santa Sede di riconoscere la neonata Repubblica sociale e Pius XII risponde seccamente: «i Patti Lateranensi non sono stati sottoscritti con Mussolini, ma con lo Stato italiano e quello Stato ora è legittimamente insediato a Sud di Roma». Una storia di oro e sangue sotto le finestre del Vicario di Cristo: il 25 settembre del 1943 il maggiore delle SS Herbert Kappler (1907 – 1978) impone alla comunità ebraica una taglia di 50 chili d’oro da pagare entro 36 ore, pena la deportazione e la morte certa. Pius XII è pronto a dare un forte contributo, ma non sarà necessario, poiché la comunità ebraica ha messo insieme tutto l’oro richiesto. All’alba del 16 ottobre 1943, di un sabato grigio e piovoso, le SS si scatenano: gli ebrei deportati sono 1.024, con destinazione i Lager e la morte. Questa volta il Papa non ha davanti un problema politico, ma la violenza nella sua Diocesi. Il Vaticano, segretamente, da asilo e rifugio a ebrei e fuoriusciti; numerosi gli ebrei nascosti a San Callisto, all’isola Tiberina, negli scantinati di Santa Maria in Trastevere, a San Paolo fuori le mura e in tante chiese Canoniche e conventi. In quegli stessi giorni a San Giovanni in Laterano, a poche centinaia di metri da via Tasso – sede del quartier generale di Kappler – sono nascosti gli antifascisti Nenni, Saragat, Bonomi, Ruini, Segni, De Gasperi. Hitler dice: «noi staneremo quel branco di porci in Vaticano, poi faremo sempre in tempo a chiedere scusa» e convoca il comandante supremo delle SS in Italia Karl Friedrich Otto Wolff (1900 – 1984) ordinandogli di occupare il Vaticano e di deportare in Germania i Cardinali della Curia presenti e il Papa stesso, per poi trafugare gli oggetti artistici e i documenti degli archivi. Hitler è adirato e accusa il Vaticano di aver tramato per far cadere il fascismo, ma il leader delle SS Heinrich Luitpold Himmler (1900 – 1945) frena il Führer, poiché ha paura che vadano distrutti antichi cimeli runici contenuti in Vaticano e di fondamentale importanza per gli scopi di propaganda neo-pagani del Terzo Reich. Ancora per il momento il rapimento del Papa è rimandato, ma Pius XII sa di essere un sorvegliato speciale e prepara una lettera di dimissioni da usare nel caso le SS invadano la Città del Vaticano. Dà licenza poi, ai membri del Sacro Collegio di allontanarsi da Roma e mettersi al sicuro, ma lui Eugenio principe Pacelli, 260° successore di Pietro, Vicario di Cristo in terra non fuggirà. Sono mesi cupi per tutti e lui il principe non vuole privilegi, si racconta moltiplichi le penitenze, mangia pochissimo, dà disposizione di non riscaldare il proprio appartamento, fa rammendare i risvolti sdruciti della veste, per risparmiare la carta scrive le tracce dei suoi discorsi sul retro delle buste usate. Nell’inverno del 1944 il Vaticano distribuisce 100 minestre al giorno, a Castel Gandolfo trovano asilo quasi 15.000 tra sfollati e rifugiati; nella stessa canonica di San Pietro si nascondono centinaia di ricercati, tra loro anche 40 ebrei e per giustificare tanta gente il Papa ricorre allo stratagemma di arruolare i rifugiati nel Corpo della Guardia Palatina i cui soldati in pochi mesi arrivano a ben 4.000 unità, prima della guerra erano solo 400. Roma sprovvista di un Re, si stringe intorno all’ultimo difensore della civiltà, il quale si comporta come un nobile Sovrano d’altri tempi: in Vaticano vengono raddoppiati i turni di guardia e le stesse Guardie Nobili vengono munite di armi da fuoco. La stima di Pius XII per la nobiltà ereditaria risalta anche con speciale nitore nelle seguenti parole rivolte alla Guardia Nobile pontificia qualche anno prima, nel dicembre del 1942: «voi Guardia della Nostra persona, siete il Nostro usbergo, bello di quella nobiltà ch’è privilegio di sangue, e che già prima della vostra ammissione nel Corpo splendeva in voi quale pegno della vostra devozione, perché, secondo l’antico proverbio, ‘bon sang ne peut mentir’. Vita è il sangue che trapassa di grado in grado, di generazione in generazione, nelle illustri vostre prosapie e tramanda seco il fuoco di quell’amore devoto alla Chiesa e al Romano Pontefice, cui non scema ne raffredda il mutar degli eventi, lieti o tristi. Nelle ore più oscure della storia dei Papi, la fedeltà dei vostri antenati rifulse più splendida e aperta, più generosa e ardente, che non nelle ore luminose di magnificenza e di materiale prosperità. […] Così eletta tradizione di virtù familiare, come nel passato fu tramandata di padre in figlio, continuerà, non ne dubitiamo, a trasmettersi di generazione in generazione, quale retaggio di grandezza d’animo e di nobilissimo vanto del casato».

Questa la strana guerra e lo strano esercito di Papa Pacelli: piccolo e disciplinato. Intanto gli Alleati avanzano verso Roma, i tedeschi hanno già minato i ponti sul Tevere e alla fine di maggio Pacelli afferma: «chiunque osi levare la mano contro Roma si macchierà di matricidio». È l’ultimo difensore di Roma, lo chiamano Defensor Civitatis, difensore della città. Con coraggio convoca il generale Wolff in Vaticano e chiede di risparmiare la Città Eterna, facendo ritirare le truppe della Wehrmacht da Roma, senza far saltare i ponti, compreso quello di Castel Sant’Angelo: i tedeschi accettano, ma non conosciamo la controfferta del Sommo Pontefice. Come l’otto giugno del 452 d.C., Attila “si fermò” davanti a Papa Leone I (390 – 461 d.C.), il male si arresta davanti al Vicario di Cristo e nella notte del quattro giugno i tedeschi si ritirano da Roma senza sparare un colpo. Scrive Monsignor Domenico Tardini (1888 – 1961): «i tedeschi hanno requisito tutti i mezzi possibili di trasporto: automobili, carrozzelle da piazza, carri con i buoi, finanche biciclette». All’alba dell’otto giugno 1944 gli Alleati entrano a Roma e Papa Pacelli si affaccia alla loggia centrale: la folla è enorme, poiché è stata l’unica autorità – non solo religiosa, ma anche morale e politica – che è rimasta a Roma nei mesi cupi dell’occupazione nazista. All’alba del sette maggio del 1945 la Germania firma la resa con la guerra durata cinque anni, otto mesi e sette giorni, ed è una resa totale e incondizionata, tutti i tedeschi sono considerati “prigionieri di guerra” e Pius XII ammonisce i vincitori: «non infierite sui vinti». L’ufficio Vaticano delle informazioni lavora giorno e notte per rintracciare i dispersi e i profughi: per milioni di italiani quello ufficio è l’unico aiuto concreto; per molte ore al giorno la Radio Vaticana trasmette una lunga lista di nomi trasmessi per Diocesi.

Dopo la guerra inizia l’ultima porzione del Pontificato di Papa Pacelli: si alza alle 5:00 e non va a dormire prima dell’01:00 di notte, è solitario, decisionista. Afferma: «io non voglio collaboratori, ma esecutori»; per lungo tempo non nomina Cardinali, non nomina il Segretario di Stato, ha un solo vero, fidatissimo collaboratore Suor Pascalina Lehnert, il cui potere in Vaticano – dicono – è secondo solo a quello del Pontefice: suor Pascalina è la sua ombra da quel lontano assalto dei bolscevichi durante la sua nunziatura a Monaco nel 1919. Ma perché tanta operosità? «gli orrori della guerra non dovranno mai più essere, per questo è necessario ricreare una potente civiltà cristiana fondata su valori forti, tradizionali, indiscutibili» amava asserire – quasi il progetto di una città di Dio su questa terra: è questo il suo progetto e per questa missione ha chiamato a servirlo Luigi Gedda (1902 – 2000) capo della falange dei comitati civici e l’instancabile gesuita napoletano don Riccardo Lombardi (1908 – 1979), soprannominato il “microfono di Dio”. Le parole d’ordine di Pius XII sono “risveglio del popolo cristiano”, “fuoriuscita dal letargo”, “Costruzione di una res-publica cristiana”. Il Papa invita a cattolicizzare la società in tutti i settori, dal cinema alla stampa, dalla moda allo sport, dalla radio alla televisione, dalla scuola al tempo libero. Il 18 aprile del 1948 avvengono le elezioni e per Papa Pacelli è la prima battaglia. La domenica di Pasqua, Pius XII attua un discorso memorabile, lo sguardo sul colonnato del Bernini è impressionante, sembra quasi una piazza d’armi, un esercito schierato pronto all’obbedienza e al combattimento. Eugenio alzando gli occhi al cielo scandisce con tono apocalittico «o con Dio o contro Dio […] nella vostra coscienza non vi è posto per la pusillanimità, per la comodità, per l’irresolutezza, di quanti in questa ora cruciale credono di poter servire due padroni»; le elezioni saranno una clamorosa sconfitta per i social-comunisti del Fronte Popolare, ma la partita non è ancora vinta.

A Est si alza la cortina di ferro ed e il Papa conia una definizione terribile: quella della “Chiesa del silenzio”. Arrivano notizie drammatiche: la condanna a 16 anni di lavori forzati dell’Arcivescovo di Zagabria Monsignor Aloysius Stepinac (1898 – 1960); l’incarcerazione in un Gulag siberiano del metropolita ucraino Monsignor Josyf Slipyi (1893 – 1984); la condanna all’ergastolo del Primate d’Ungheria Cardinale Jozsef Mindszenty (1892 – 1975). Il primo luglio del 1949 il Santo Uffizio decreta la scomunica per quanti professano la dottrina comunista, definita materialista e anti-cristiana. In quei giorni, simbolicamente, Pius XII beatifica con una maestosa cerimonia Papa Innocentius XI (1611 – 1689) e lo elegge a suo modello. Benedetto Odescalchi è stato l’ultimo difensore della cristianità contro i turchi alla metà del 1600: i Turchi moderni sono i comunisti. E la battaglia continua nella primavera del 1952 con le elezioni al comune di Roma, quando Pius XII paventa la vittoria dei social-comunisti, chiedendo a De Gasperi la formazione di un governo a trazione conservatrice tra cui il movimento sociale e i monarchici. De Gasperi rifiuta categoricamente e l’alleanza non si farà. I social-comunisti perderanno comunque le elezioni, ma per De Gasperi è una vittoria di Pirro, poiché i suoi rapporti con il Papa sono irrimediabilmente deteriorati. In quel anno si consuma anche il distacco con Montini, il quale viene visto, molto correttamente da Pacelli, troppo vicino alle idee di De Gasperi: lo nomina arcivescovo di Milano: promoveatur ut amoveatur (sia promosso affinché si possa allontanarlo), per il futuro Papa Paulus VI è quasi un esilio. Un Papa dunque schiacciato su un Occidente sempre più liberista e consumista? No, Pacelli predica una civiltà alternativa ad entrambi i sistemi «la società occidentale è ridotta a puro automatismo, è un mondo che solo e impropriamente ama definirsi mondo libero»; il Pontefice ad una precisa richiesta degli Stati Uniti, rifiuta di entrare nel Patto Atlantico e respinge la richiesta americana di rinunciare alla neutralità quando scoppia la guerra di Corea nel 1950, sempre per seguire il principio di “padre” di tutti i popoli. Nello stesso anno un’altra grande mobilitazione è quella per l’anno Santo e l’Osservatore Romano scrive: «è stato il più grande colloquio che il papato abbia mai avuto con il mondo». Convengono a Roma, più di 1.500.000 pellegrini e sarà il primo evento di massa della cristianità – qui il Papa chiama al “risveglio” tutti i fedeli, li esorta ad uscire dalla letargia, a vivere un cattolicesimo militante. L’anno Santo si conclude con un altro grande evento: la proclamazione del dogma dell’assunzione, ultimo dogma proclamato da Santa Romana Chiesa. In questa devozione mariana c’è qualcosa di inquietante: mediatrice di un Dio lontanissimo, la Madonna sembra l’ultimo rifugio, prima che l’inevitabile scoppi, prima che qualche tragico segreto, si abbatta sull’umanità. Nel 1951 vi sarà un’altra grande mobilitazione, quella della “Crociata per la bontà e la purezza”, con Papa Pacelli che innalza agli onori degli altari la martire adolescente Maria Goretti e a San Pietro c’è una folla immensa. In un mondo amorale e indifferente Maria Goretti deve essere un esempio per tutti. E su tutti si informa, su tutto di documenta, su tutto scrive, con meticolosità e pignoleria quasi maniacale – qualcuno mormora che anche in questo vuole essere “infallibile”.

Giovanni Gasparro, Venerabile Pio XII Pontefice Massimo (particolare) – Olio su tela, 90 X 70 cm, 2016.

Le masse, le grandi masse: Pius XII è il Papa degli immensi raduni e mai fino a quel momento un Pontefice era stato così ricercato, osannato, ossequiato; ha carisma, personalità, autorità: gli occhi rivolti in alto, le braccia larghe, i gesti studiati; sembra perennemente muoversi su di un invisibile palcoscenico. Nella mediazione tra terra e cielo, lui si pone naturalmente in alto, verso il cielo e sembra costantemente assiso su un ideale trono piantato su 2.000 anni di storia. Di fronte ad un mondo che forse non vuole più capire, Pacelli sembra ritirarsi sempre più in se stesso e gli ultimi anni del Pontificato, sembrano svolgersi in un graduale calo dello slancio dottrinale. I rotocalchi popolari lo ritraggono come un San Francesco che parla agli animali, lo fotografano con il cardellino “Gretel” sulla mano. È come se fosse “già oltre” questa vita terrena, ma non solo: accade qualcosa di strano, poiché il suo tempo ultimo è segnato da sorprendenti e misteriosi fenomeni, premonizioni, visioni, apparizioni. Confida a Monsignor Tardini che gli è apparso Gesù ed egli lo ha chiamato «voca me, voca me» (chiamami a te, portami con te), «credo che il Signore mi chiamasse, sarebbe stato bello morire in quel momento». Confida poi di aver assistito – come rapito – ad un miracolo del sole: mentre passeggia per i giardini del Vaticano alza gli occhi al cielo ed ecco che il sole comincia a girare vertiginosamente su se stesso e di fronte a lui si è ripetuto lo straordinario evento che concluse le visioni di Fatima in quello che oramai è un lontanissimo giorno del 1917. L’ultimo discorso di Pius XII è come una cupa visione, quasi egli avesse avvertito – con straordinaria chiarezza – il rischio che poteva correre la Chiesa nello smarrirsi nel caldo abbraccio del modernismo; parla di sé come un viandante smarrito, perso in un’ombra quasi di morte, confessa di sentirsi «nel mezzo della notte», l’umanità dice «non ha la forza di rimuovere la pietra tombale che essa stessa ha fabbricato» e conclude con una supplica «vieni o Signore, manda il tuo Angelo e fa che la nostra notte si illumini come il giorno». È quasi un’invocazione apocalittica, in cui c’è tutta l’intuizione di una crisi societaria che pone la Chiesa erroneamente “fuori dalla storia”, la quale sembra – per tale punto di vista – non riuscire a farsi intendere dai fedeli e non riuscire a leggere le nuove cose del mondo. Pius XII è malato e lo sa, è anemico, soffre di ulcera, ha l’artrite, un singhiozzo lo tormenta per settimane e settimane; pensa anche alle dimissioni e dice a Monsignor Tardini: «noi siamo afflitti da troppi mali, essi fanno di noi una cariatide, siamo solo di peso alla Chiesa». Sulla stampa nazionale e internazionale c’è una grande assenza del Papa e della Chiesa e solo la malattia del Pontefice fa notizia. Il nove ottobre del 1958 alle 3:00 di notte l’ultimo affannoso respiro. Così è morto e così è vissuto Papa Eugenio Pacelli, Pius XII, l’ultimo principe di Dio: dopo di lui, lo spirito invierà un vecchio Papa contadino riformatore e sarà lui a creare quelle difficoltà teologiche che la Chiesa oggi vive, dopo gli eventi del Concilio Vaticano II, chiuso da Paulus VI.

 

Per approfondimenti:
_Saul Friedländer, Pio XII e il Terzo Reich, Feltrinelli, Milano, 1965;
_Michael Phayer, La chiesa cattolica e l’olocausto, Newton & Compton, Roma, 2001;
_Giovanni Miccoli, I dilemmi e i silenzi di Pio XII, Rizzoli, Milano, 2000;
_Andrea Riccardi, Il secolo del martirio, Mondadori, 2009;
_Antonio Spinosa, Pio XII, Mondadori, Milano, 2004;
_Emanuele Dal Medico, All’estrema destra del padre: tradizionalismo cattolico e destra radicale, Ed. La Fiaccola, 2004;
_Andrea Tornielli, Pio XII. Eugenio Pacelli. Un uomo sul trono di Pietro, Mondadori, Milano 2008;
_Giuseppe Baiocchi, Il beato Pio IX: storia dell’ultimo Papa Re, L’altro – Das Andere, 2018;
_Hubert Wolf, Il Papa e il diavolo, Donzelli, Pomezia, 2008.

 

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Le Lettere di San Paolo: sommità dell’apostolato e rivoluzione letteraria

Le Lettere di San Paolo: sommità dell’apostolato e rivoluzione letteraria

di Daniele Paolanti 16-02-2020

«Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?» La conversione di Saulo di Tarso è pressoché celeberrima e divenuta proverbiale, laddove si volesse fare riferimento ad un cambiamento radicale, improvviso, se non addirittura immantinente. Il genere letterario inaugurato dal più grande evangelizzatore della parola di Cristo ha dato la stura non soltanto all’assunzione della consapevolezza circa l’importanza dell’apostolato, ma finanche della spiccata e inedita percezione della Chiesa di Cristo (per utilizzare le parole del Santo Padre Francesco in Evangelii Gaudium) come una porta.

Michelangelo Merisi, La Conversione di san Paolo. Caravaggio, similmente alla crocifissione di San Pietro, fa grande uso della luce. Essa rappresenta sempre Dio, ma questa volta non è una luce che coinvolge tutti, bensì un solo uomo, Paolo appunto. Egli cade da cavallo, ma l’intervento divino permette al destriero di non calpestare il futuro santo. L’elmo cade dal capo di Saulo, a simboleggiare l’abbandono dell’uomo persecutore e la sua trasformazione in un uomo nuovo; le braccia si alzano al cielo, pronte ad abbracciare la missione che Cristo ha deciso di assegnargli. Il volto di Paolo non è quello di un uomo colpito da una tragedia, da un atto violento, bensì di una persona serena che sembra quasi dormire, mentre cerca di carpire il mistero della divinità. Le palpebre scendono lentamente sugli occhi e non si corrucciano, rifiutando così la chiamata, ma rimangono distese, pronte ad accogliere la missione del Signore.

La Chiesa, con Paolo, inizia ad estendere le sue braccia nei confronti di chiunque, indipendentemente dalla predisposizione all’accoglimento del messaggio.
L’apostolato di San Paolo, autoproclamatosi l’apostolo dei Gentili (così ex se dixit almeno nella lettera ai romani ed ai galati), proprio in ragione alla sua attitudine a rivolgersi non ai singuli ma alle gentes, ha manifestato la sua imponenza sia per i viaggi condotti dall’alfiere del Vangelo, prodromici a diffondere la Parola in ogni angolo del mondo, ma anche e soprattutto per l’amplissima diffusione della sua opera. Nella lettera ai romani, capolavoro supremo della produzione paolina, è lo stesso Saulo/Paolo ad esprimere il desiderio, che manifesterà ai suoi interlocutori (i romani), di poter un giorno incontrarli e renderli partecipi del Vangelo, conversando direttamente con loro. Risulta difatti prontamente percettibile come il genere letterario di cui Paolo di Tarso si avvalga sia, quantomeno, eccentrico, almeno per l’epoca. Nel periodo storico in cui Paolo visse, le epistolae erano indirizzate ad un unico destinatario/interlocutore (tuttavia giova rammentare come anche Paolo seguirà questo specifico paradigma nelle cc.dd. “lettere pastorali”), sebbene in effetti già in Grecia si fosse diffusa l’abitudine, tra i seguaci di Epicuro, di indirizzare lettere ad una pluralità di soggetti, individuati perlopiù in base alla comune appartenenza etnica o (come nel caso degli epicurei) ideologica. Ripercorrere la vita di San Paolo è un’operazione ardua, dacchè le fonti sono estremamente scarne (se ne offre debito, anche se frammentario, conto negli Atti degli Apostoli) e la remota area geografica in cui questi visse la prima parte della sua vita, la città di Tarso nella Cilicia (attuale area meridionale della Turchia), non ha agevolato il recupero di tutti gli scritti. Anzi. Tra gli esegeti sono sorti numerosi interrogativi pertinenti l’autenticità di alcuni di essi.
Come riferito in premessa non è operazione agevole ricostruire, in integrum, la vita di San Paolo, proprio per le contingenze storico-geografiche di cui sopra si è offerto rapido cenno. Si presume, attenendosi pedissequamente alle (poche) fonti, che questi sia vissuto nell’arco temporale intercorrente tra il 5-10 d.C. ed il 64-67 d.C.
Saulo nacque a Tarso, nella regione della Cilicia. Era cittadino romano per nascita e, su questo specifico privilegio (cives romanus sum era il motto di presentazione dei cittadini romani, ma anche indice del godimento di innumerevoli guarentigie ed agevolazioni, sia politiche-civili che fiscali), non è dato conoscere molto. Sono state elaborate diverse teorie al riguardo, di cui la più accreditata, almeno per chi scrive, risulterebbe essere quella per la quale Paolo fosse divenuto Cives perché il padre di Paolo, fabbricatore di tende, si distinse per il commendevole supporto ed ausilio offerto all’esercito romano durante una campagna militare di Cesare, Antonio o Pompeo e ottenne, di tal guisa, la cittadinanza. Quel che è certo è, comunque, che fosse cittadino romano per nascita. Inoltre dalla produzione paolina è possibile apprendere (in argomentum v. lettera ai Romani ed ai Filippesi) che egli fosse ebreo e appartenente alla tribù di Beniamino, ovvero il dodicesimo ed ultimo figlio di Giacobbe (Rm 11, 1 – Fi 3,5). Non deve tuttavia sorprendere che un abitante della Cilicia appartenesse alla tribù di Beniamino. Infatti si potrebbe, ab inverso, opinare sostenendo che l’area territoriale corrispondente a questa tribù fosse sita nella Palestina, a nord di Gerusalemme, tra la Giudea e la Samaria (e non nella Cilicia). Tuttavia si comprende la normalità della circostanza avuto riguardo al fatto che anche Gesù e Giuseppe, che vissero a Nazareth (sita nella parte settentrionale della Palestina) appartenevano alla tribù di Giuda e della casa di Davide (territorialmente rispondente alla parte meridionale della Palestina). Sicuramente Paolo apparteneva al novero degli ebrei che osteggiavano la neo istituita Chiesa di Cristo, tanto da divenire egli noto come un persecutore dei cristiani.
Altro dato conosciuto è che Paolo fosse nato sì a Tarso, ma fu mandato a Gerusalemme, dove ricevette un insegnamento rigoroso della Legge presso il rabbino Gamaliele il Vecchio. Saulo (canonizzato Paolo) non assistette personalmente alla predicazione di Gesù, ma vi entrò in contatto solo a seguito della sua Passione. Paolo era un fariseo, quindi, che prese parte finanche alla lapidazione di Santo Stefano (primo Martire) dacchè è dato leggere negli atti degli apostoli che «[1]Saulo era fra coloro che approvarono la sua uccisione. In quel giorno scoppiò una violenta persecuzione contro la Chiesa di Gerusalemme e tutti, ad eccezione degli apostoli, furono dispersi nelle regioni della Giudea e della Samaria. [2]Persone pie seppellirono Stefano e fecero un grande lutto per lui. [3]Saulo intanto infuriava contro la Chiesa ed entrando nelle case prendeva uomini e donne e li faceva mettere in prigione» (At 8, 1-3).
In ragione della missione dal medesimo perpetrata, individuare e perseguitare i cristiani promotori della neo istituita Chiesa di Gesù Cristo, si spostò alla volta di Damasco, dove avrebbe dovuto (rectius: voluto) imprigionare i cristiani opponendosi strenuamente alla loro professione di fede: «[1]Saulo frattanto, sempre fremente minaccia e strage contro i discepoli del Signore, si presentò al sommo sacerdote [2] e gli chiese lettere per le sinagoghe di Damasco al fine di essere autorizzato a condurre in catene a Gerusalemme uomini e donne, seguaci della dottrina di Cristo, che avesse trovati» (At 9, 1-2).
Saulo intraprese quindi la strada che lo avrebbe condotto a Damasco ove, folgorato da una Luce che lo privò finanche della vista, avvertì il monito divino che lo redarguiva su quanto stesse operando: «[3] E avvenne che, mentre era in viaggio e stava per avvicinarsi a Damasco, all’improvviso lo avvolse una luce dal cielo [4] e cadendo a terra udì una voce che gli diceva: “Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?” [5] Rispose: “Chi sei, o Signore?” E la voce: “Io sono Gesù, che tu perseguiti! [6] Orsù, alzati ed entra nella città e ti sarà detto ciò che devi fare”» (At 9, 3-7). Gli uomini che circondavano Paolo, ammutoliti dall’evento, lo condussero a Damasco ove rimase privo della vista per tre giorni, durante i quali non mangiò né bevve. Sempre a Damasco, vi era un discepolo di nome Anania il quale, secondo quanto riferito negli Atti degli Apostoli, avrebbe ricevuto l’invito del Signore – in una visione – a recarsi sulla strada chiamata Diritta e cercare nella casa di Giuda un tale che aveva nome Saulo di Tarso. Anania accolse l’invito con titubanza, avendo saputo chi Saulo fosse e, soprattutto, essendo questi a conoscenza dell’autorizzazione rilasciata dai sommi sacerdoti di arrestare tutti quelli che invocano il nome di Gesù. Il Signore però gli disse: «Va’, perché egli è per me uno strumento eletto per portare il mio nome dinanzi ai popoli, ai re e ai figli di Israele; [16] e io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome» (At 9, 15-17). Allora Anania andò, entrò nella casa indicatagli e impose le mani su Saulo proferendo le parole: «Saulo, fratello mio, mi ha mandato a te il Signore Gesù, che ti è apparso sulla via per la quale venivi, perché tu riacquisti la vista e sia colmo di Spirito Santo». Dagli occhi di Saulo caddero sedimenti che erano come delle squame, così riacquistò la vista, prese cibo e bevande e recuperò le forze.

El Greco, San Paolo, olio su tela -1600.

Ha così inizio la prima predicazione di Saulo a Damasco, il quale incominciò la sua evangelizzazione con entusiasmo raccogliendo però il malcontento dei pagani i quali, meditando di ucciderlo, lo costrinsero per tali nefandi propositi a fuggire verso Gerusalemme. Anche in questa città Saulo avviò un intenso percorso di evangelizzazione, pur non riscuotendo molto favore tra la popolazione, memore quest’ultima della persecuzione posta in essere da Paolo nei confronti dei Cristiani. Il successo della predicazione paolina a Gerusalemme trovò scaturigine dall’intermediazione operata da Barnaba (un apostolo originariamente noto con il nome di Giuseppe di Cipro di cui è ignota la data di nascita ma si ipotizza morì a Salamina nel 61 d.C: è tradizionalmente considerato il primo vescovo di Milano). Grazie proprio all’intervento di questi ed ai suoi buoni offici, Saulo venne accolto e poté così iniziare la sua opera di conversione. Tuttavia Paolo rimase a Gerusalemme per soli quindici giorni poiché, pur avendo tentato qualche conversione la sua presenza nella Città turbava profondamente i giudei e impensieriva i cristiani. Questo periodo della sua vita è infatti riportato negli Atti degli Apostoli ove si legge che «[26] Venuto a Gerusalemme, cercava di unirsi con i discepoli, ma tutti avevano paura di lui, non credendo ancora che fosse un discepolo. [27] Allora Barnaba lo prese con sé, lo presentò agli apostoli e raccontò loro come durante il viaggio aveva visto il Signore che gli aveva parlato, e come in Damasco aveva predicato con coraggio nel nome di Gesù. [28] Così egli poté stare con loro e andava e veniva a Gerusalemme, parlando apertamente nel nome del Signore [29] e parlava e discuteva con gli Ebrei di lingua greca; ma questi tentarono di ucciderlo. [30] Venutolo però a sapere i fratelli, lo condussero a Cesarèa e lo fecero partire per Tarso» (At 9, 26-30).
Da Cesarèa Paolo tornò così alla sua città di Tarso ma, quivi, si interrompono le notizie biografiche sulle quali ci si può esprimere con certezza. Saulo tornato a Tarso lavorò come tessitore finché Barnaba (indicativamente nell’arco temporale che va dal 39 al 43 d.C.), inviato dagli apostoli ad organizzare la nascente comunità cristiana di Antiochia, passò da lui invitandolo a seguirlo.
A seguito dell’invito di Barnaba ed assunta coscienza della sua missione nel mondo, ovvero di diffondere la Parola non soltanto tra gli ebrei ma anche tra i cc.dd. gentili (v. supra), abbandonò per sempre il nome di Saulo per assumere quello di Paolo e fu ad Antiochia che i discepoli di Cristo furono denominati per la prima volta come “cristiani”.

Benjamin West, Pala della Conversione di S. Paolo, 1786, Dallas Museum of Art, Dallas.

Nel Nuovo Testamento le lettere seguono i vangeli e precedono l’Apocalisse di San Giovanni. Le lettere che recano, nell’intestazione, il nome di Paolo, sono tredici: quelle rivolte alle chiese, nelle Bibbie moderne, precedono quelle rivolte ai singoli individui. Le lettere sono perlopiù ordinate secondo la loro lunghezza ed alle tredici mentovate è stata poi aggiunta la Lettera agli Ebrei (ndr la lettera agli ebrei non reca nell’intestazione il nome di Paolo).
Per quanto riguarda la loro disposizione o, meglio, la loro classificazione, le lettere paoline possono essere preliminarmente divise in due categorie: quelle principali, ovvero la lettera ai Romani, le due lettere ai Corinzi ed ai Galati e poi quelle della prigionia, che sono le quattro in cui Paolo dice di sé di essere in catene (lettera agli Efesini, ai Filippesi, ai Colossesi e Filemone). A queste due grandi categorie si aggiungono quelle lettere che, a partire dal XVIII secolo sono state definite “lettere pastorali”, perché indirizzate a responsabili di comunità cristiane: sono, in species, le due lettere a Timoteo e quella a Tito.
A partire dal XIX secolo sono sorti dubbi circa l’autenticità di talune delle lettere paoline, tant’è che, sebbene oggi l’esegesi sia unanimemente concorde nel ritenere che sicuramente sette lettere sono da attribuirsi certamente a Paolo (Romani, 1 e 2 dei Corinzi, Galati, Filippesi, Tessalonicesi e Filemone, che furono scritte indicativamente tra gli anni 50 e 60 d.C.) dubbi permangono sulla paternità della lettera agli Efesini e quella ai Colossesi, nonché sulla 1 e 2 di Timoteo e la lettera a Tito. Proprio avuto riguardo a queste ultime lettere di cui si è offerta contezza può operarsi un’ulteriore distinzione, ovvero quelle ad alto contenuto ecclesiologico e quelle pastorali (che sono 1 e 2 Timoteo e la lettera a Tito). Parte della dottrina, proprio opinando circa i caratteri linguistici e stilistici (oltreché teologici) rispetto alle sette lettere sicuramente autentiche, ritiene che le altre possano ritenersi appartenenti comunque alla tradizione paolina ed essere considerate pseudepigrafe, attribuite cioè a Paolo dai suoi discepoli che hanno conservato vivo l’insegnamento a seguito della morte del loro Maestro (ndr talvolta alcuni teologi le qualificano come deuteropaoline). Sono comunque in molti a credere che tutte (o gran parte) possano essere attribuite a Paolo, soprattutto in ragione della sua autorità apostolica.
Paolo sicuramente scrisse anche molte altre lettere che sono però andate perdute. La produzione letteraria paolina fa comunque riferimento alla vita delle comunità cristiane, con il proposito di renderle più vicine e obbedienti al Vangelo, pur presupponendo una vita ecclesiale da cui traggono origine. Nelle lettere si trovano infatti sia l’attività di evangelizzazione compiuta da Paolo ma anche elementi liturgici, brani catechetici, citazioni e spiegazioni della Scrittura.
Il corpus paolino è poi seguito da sette lettere chiamate “cattoliche”: Giacomo, 1-2 Pietro, 1-2-3 Giovanni e Giuda. Verosimilmente la disposizione delle sette lettere è quella dettata dai tempi in cui sono menzionati i tre apostoli in lettera ai Galati 2, 9 (cui viene aggiunto Giuda, fratello di Giacomo. L’appellativo di “lettere cattoliche” trovò diffusione già nel IV secolo (come testimonia tra l’altro Eusebio di Cesarea) ed erano indirizzate non ad una Chiesa particolare, ma a tutti i cristiani in generale. Tra esse una menzione particolare merita la lettera a Giovanni, dacchè essa difetta del tutto di quegli elementi tipici di una “lettera”, infatti mancano i destinatari (talvolta è data intuirne l’esistenza mediante l’impiego del “Voi”) che non sono noti né individuabili in modo diretto.
 

Raffaello Sanzio, Predica di san Paolo (1515-16).

L’apostolato di San Paolo e la sua produzione letteraria si sono rivelati indice di due distinti profili di indiscutibile rilievo teologico: la redenzione, sintomo dell’opera della Misericordia e, con ineludibile evidenza, perifrasi del Disegno divino; in secondo luogo la necessaria evangelizzazione cui ciascun cristiano è chiamato, affinchè abbia a ritenersi esso stesso una porta dischiusa alle genti, un’inesauribile ed incontenibile desiderio di diffondere la Parola non soltanto tra i Cristiani ma finanche tra i “gentili”.
La secolarizzazione, il modernismo, l’omologazione sociale ed il desiderio mimetico (per parafrasare René Girard) hanno integralmente ridefinito il quadro antropologico del mondo, ponendo sovente il cristiano nella condizione di sentirsi una cellula smarrita in un mondo di gentili. Ma il coraggio paolino, manifestato a Damasco, a Gerusalemme e Cesarèa, ci ricordano che quotidie siamo chiamati al confronto anche con realtà diverse, per riconoscere che il Corpo Mistico di Cristo, la Chiesa, è la porta che unisce le diversità ed accomuna i fedeli sotto il Sangue di Gesù e all’ombra della Sua divina Croce, ogni fedele troverà la forza di stendere le sue lettere..

 

Per approfondimenti:
_Le Lettere di Paolo. Nuova versione ufficiale della Conferenza Episcopale Italiana, San Paolo Edizioni, 01 giugno 2014;
_Paolo. Da Tarso a Roma, il cammino di un grande innovatore, Romano Penna, Il Mulino, 7 maggio 2015;
_Paolo di Tarso: le lettere. Chiavi di lettura, Andrea Albertin, Carocci, 19 maggio 2016;
_Atti degli Apostoli, C. M. Martini, San Paolo Edizioni, 14 dicembre 1995;
_Evangelii gaudium. Esortazione apostolica, Francesco (Jorge Mario Bergoglio), San Paolo Edizioni, 20 novembre 2013;
_La Sacra Bibbia – CEI, reperibile presso https://www.maranatha.it/Bibbia/5-VangeliAtti/51-AttiPage.htm.
 

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La Pia pratica dei veli muliebri

La Pia pratica dei veli muliebri

di Monica Gibertoni 07-12-2019

Il velo muliebre è una pia pratica, riservata alle donne, per vivere con umiltà e modestia la partecipazione alla santa Messa. Dopo il Concilio Vaticano II è purtroppo caduto in disuso nella maggioranza delle parrocchie, sebbene la norma sia effettivamente ancora valida. Questa pia pratica dovrebbe essere riscoperta, per vivere con maggior partecipazione e umiltà la Santa Messa.
I veli muliebri sono realizzati tagliando tessuti in pizzo o tulle su misura e rifinendoli con bordo in pizzo. I tessuti più leggeri possono sembrare rigidi e scivolosi, a causa della loro consistenza. Si consiglia l’utilizzo di forcine o spillette per capelli per fissarle al capo senza rovinarli.
Si realizzano quattro tipologie di modelli principali, con misurazione diversificata: Triangolare poco ingombrante (lato lungo 1m ca., lati obliqui (dietro) 75cm ca); Rettangolare (140x45cm ca. Mantilla 140x60cm ca.) perfetto per coprire anche le spalle, o solo come scialle; Velo tubolare (velo, mantilla, coprispalle – lunghezza totale 130x60cm).
Da sempre le donne si sono coperte il capo nella dimora di Dio, ecco alcuni riferimenti biblici: Dalla prima lettera di S. Paolo Apostolo ai Corinzi: [11,3-16] «Voglio però che sappiate che di ogni uomo il capo è Cristo, e capo della donna è l’uomo, e capo di Cristo è Dio. Ogni uomo che prega o profetizza con il capo coperto, manca di riguardo al proprio capo. Ma ogni donna che prega o profetizza senza velo sul capo, manca di riguardo al proprio capo, poiché è lo stesso che se fosse rasata. Se dunque una donna non vuol mettersi il velo, si tagli anche i capelli! Ma se è vergogna per una donna tagliarsi i capelli o radersi, allora si copra. L’uomo non deve coprirsi il capo, poiché egli è immagine e gloria di Dio; la donna invece è gloria dell’uomo. E infatti non l’uomo deriva dalla donna, ma la donna dall’uomo; né l’uomo fu creato per la donna, ma la donna per l’uomo.

Due tipologie del velo bianco per donne non sposate: bianco trasparente (a sinistra) e bianco di pizzo (a destra).

Per questo la donna deve portare sul capo un segno della sua dipendenza a motivo degli angeli. Tuttavia, nel Signore, né la donna è senza l’uomo, né l’uomo è senza la donna; come infatti la donna deriva dall’uomo, così l’uomo ha vita dalla donna; tutto poi proviene da Dio. Giudicate voi stessi: è conveniente che una donna faccia preghiera a Dio col capo scoperto? Non è forse la natura stessa a insegnarci che è indecoroso per l’uomo lasciarsi crescere i capelli, mentre è una gloria per la donna lasciarseli crescere? La chioma le è stata data a guisa di velo. Se poi qualcuno ha il gusto della contestazione, noi non abbiamo questa consuetudine e neanche le Chiese di Dio».
Anche il Codice di Diritto Canonico del 1917 prescriveva alle donne di tenere il capo coperto in Chiesa, soprattutto al momento della Santa Comunione.
Norme che regolino il colore del velo non esistono. L’importante è coprirsi il capo in chiesa, e in particolare durante la Santa Messa. Esistono però tradizioni, a livello nazionale, che nel tempo si sono ben consolidate nell’uso comune.
In Italia si utilizzata soprattutto il velo di forma triangolare, a volte rettangolare, con i seguenti colori: nero per le donne sposate, grigio o nero per le vedove, bianco per le nubili. Oltre a un segno del proprio stato, poteva aiutare eventuali celibi in cerca di moglie a evitare spiacevoli tentativi. Spesso infatti la chiesa era il luogo di incontro principale, specie nei paesi rurali.

Due tipologie del velo nero per donne sposate: nero trasparente (a sinistra) e nero di pizzo (a destra).

In altri paesi la tradizione è differente: in Spagna la mantilla andava per la maggiore, in particolare in nero. Nei paesi teutonici non si era stabilito l’uso esclusivo del velo di pizzo, ci si copriva con fazzoletti, scialli e sciarpe.
Negli Stati Uniti, ove l’utilizzo del velo è più presente al giorno d’oggi, spesso si seguono i tempi liturgici abbinandosi: viola per la quaresima, oro o rosso per il Natale.
Sono inopportuni colori molto sgargianti. Altri pantoni utilizzabili sono il beige, il blu (che essendo scuro e mariano va bene per tutte), rosa per le bambine.

 
Per gli interessati all’acquisto o ad approfondimenti, rimandiamo al sito MONNICrAft.
 

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L’incontro tra Dio e l’uomo nella Liturgia

L’incontro tra Dio e l’uomo nella Liturgia

di don Nicola Bux 31-10-2019

Cosa sta sotto la questione liturgica odierna? Dopo Kant non si accettano i fatti ma solo le interpretazioni. Questa è la malattia di certo cristianesimo – e della liturgia che dovrebbe ripetere il fatto di Gesù Cristo (il rito): intaccare il fatto, il mistero, interpretandolo invece di obbedire. È l’indisciplina. Ora il Mistero, i Misteri, è il luogo del ‘Fatto’ di Dio incarnato, Gesù Cristo e Signore. Il Fatto è la Presenza di Dio. Noi «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua Presenza a compiere il servizio sacerdotale». La presenza di Dio è la liturgia divina. Questa è il Fatto.
Il Mistero dice a me: io sono ciò che manca alle cose che tu gusti. Nella liturgia c’è l’origine di ciò che sono ora, irriducibile alla mia misura. Perciò, l’uomo mendicante di Dio è la sconfitta della grande tentazione originale e ricorrente di farsi Dio. Questo è l’atteggiamento giusto. San Pietro reagisce dinanzi alla sproporzione tra sé e Cristo. Al primo incontro dopo la pesca inaspettata sul lago di Tiberiade sceglie l’isolamento: «Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo peccatore» (Lc 5,4-9).
Al secondo incontro nel medesimo contesto, dopo aver tradito Gesù fino alle lacrime, aveva coscienza di essere peccatore e chiede a Gesù di rimanere lì: «Signore, tu sai tutto, tu lo sai che io ti amo» (Gv 21,15-19). Pietro sceglie la solitudine, la verginità. La vita è cambiata grazie a chi mi abbraccia come io sono. Questo accade nella liturgia sacramentale: è efficace a tale trasfigurazione – San Francesco: «Siamo quelli che siamo davanti a Dio e niente più».
L’uomo ha bisogno di un incontro decisivo con una Persona, di un orientamento decisivo della vita. Ecco a cosa serve la liturgia con la sua ‘tradizione’, cioè il movimento di consegna da Dio all’uomo, di generazione in generazione. In tale movimento c’è anche tutta l’innovazione: «Ecco, Io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Questo movimento è la Chiesa! Questa dinamica è la liturgia che ripresenta i misteri divini con la sua simbolica rituale, la sua disposizione architettonica e iconografica e la sua interpretazione (erminìa o mistagogia). Dio disse a Mosè: «Non t’avvicinare! Togliti i calzari dai piedi, perché il luogo dove sei è terra santa» (Es 3,5). Ti converto, ti consacro e t’invio. Lo Spirito fa accadere questo nell’oggi della liturgia. Questo alimenta ogni mattina la speranza: l’attesa di Qualcuno che mi accolga come sono: l’Amore che è Dio. Così cambia la vita. Il mondo lo cambia la liturgia, non le facoltà teologiche. Dunque, la liturgia è la Presenza che ci accompagna e pazientemente ‘riforma’ la nostra vita. Ne è cosciente, non da ora, Benedetto XVI. Perciò è necessario il silenzio.
La presenza contemporanea a noi di Cristo– non i valori – crea il luogo dove dimorare e in cui seguirlo.
Cristo è il protagonista della nostra vita e quindi della liturgia. Perciò non basta l’ortodossia della dottrina, ci vuole la fedeltà alla sua Persona. La liturgia è missione: serve a far conoscere Gesù Cristo (non i valori della pace, della solidarietà, ecc). Lo insegna san Gregorio Magno (540-604), autore e legislatore della liturgia e del canto sacro, come attesta il sacramentario, nucleo originario del messale romano. Ma ci vuole l’esperienza della fede come soddisfacimento del bisogno profondo dell’io. Allora obbedisco a chi mi riempie della pienezza di Dio. Per questo bisogna obbedire al Vescovo di Roma da parte di tutti vescovi, così obbediranno tutti i sacerdoti ai vescovi e tutti i fedeli ai sacerdoti e tutti gli uomini alla Chiesa cattolica. Non vi può essere vera e profonda partecipazione alla vita della Chiesa e alla liturgia, senza la consapevolezza di quello che è capitato alla mia vita con la fede. Per questo ci vuole la pazienza come «forma quotidiana dell’amore».
Il culto avviene soltanto per, con e in Gesù Cristo: diversamente non arriva a Dio Padre per adorarlo e nemmeno a noi per santificarci. Quindi non lo facciamo noi. Lo chiariva l’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII. Nessuno può parlare di liturgia senza partire da Cristo costituito mediatore tra Dio e l’uomo e senza intenderla come manifestazione somma e continua di tale mediazione. Egli è il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo e fa della liturgia il culmine della vita della chiesa e la fonte di ogni grazia. L’opera della redenzione di Cristo viene in modo analogo riproposta nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium (cfr 5-6). Ma c’è un secondo elemento essenziale della liturgia cattolica secondo l’enciclica: «In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la chiesa è presente il suo Divin Fondatore: Cristo è presente nell’augusto sacrificio dell’altare sia nella persona del suo ministro, sia massimamente sotto le specie eucaristiche; è presente nei sacramenti con la virtù che in essi trasfonde perché siano strumenti efficaci di santità; è presente infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta scritto: ‘Dove sono due o tre adunati in nome mio, ivi sono in mezzo ad essi’ (Mt 18,20)» (I,1). Il versetto viene ripreso nel noto paragrafo della costituzione liturgica sulla presenza di Cristo (n 7) con la sola aggiunta: «È presente nella sua parola, giacché e lui che parla quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura». Poco prima, la costituzione liturgica, richiamandosi al sacramentarlo veronese, afferma che Cristo è «Mediatore tra Dio e gli uomini e pienezza». La definizione della liturgia come «il culto pubblico integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra» (I,2), contenuta nell’enciclica di Papa Pacelli, è stata declinata nel n.7 della costituzione liturgica. La liturgia è l’opera di Cristo, capo e membra. La chiesa interviene, ma in maniera subordinata a Cristo, che è il celebrante principale. Va da sé che il sacerdote è strumento nelle mani del vero celebrante, Cristo, per la salvezza del popolo; pertanto non conviene usare l’espressione «assemblea celebrante» e simili (Istruzione Redemptionis sacramentum, n 42).
Definir la liturgia culmine e fonte l’endiadi celebre della Sacrosanctum Concilium (n.10) resta incomprensibile senza la presenza di Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per stare con noi tutti i giorni fino alla fine. Se però chiediamo a laici impegnati, a presbiteri e a vescovi la definizione di liturgia, non risponderanno citando la prima, bensì la seconda. Sembra che teologi e liturgisti nel post-concilio abbiano dimenticata la prima definizione che il concilio dà di liturgia. Invece è grazie a quella che la definizione «culmine e fonte» utilizzata anche da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis (nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93) ha il suo senso. Ma bisogna anche chiedersi perché la prima definizione sia stata fatta cadere. Forse perché la seconda si presta più facilmente all’idea che la liturgia sia fatta da noi.. con tutte le conseguenze! Il Vaticano II avrebbe avallato tale idea? Trattando dell’ecclesiologia della Lumen gentium, Ratzinger cardinale dice che il Vaticano II, scegliendo di trattare della liturgia prima di ogni altra cosa, aveva dato l’inquadramento generale ai suoi decreti. Parlare di liturgia, infatti, significa parlare di Dio: «All’inizio vi è l’adorazione e quindi Dio». Quindi è impensabile far passare un concetto principalmente umano di liturgia, cioè la sua organizzazione, come la vera intenzione del concilio. L’etimologia ci ricorda che la parola greca ekklesia viene dal verbo kaleo e dall’ebraico corrispondente qahal. La liturgia della Chiesa non è una riunione spontanea di popolo che celebra e festeggia a suo modo la divinità, non una congregazione organizzata dai fedeli – secondo qualche liturgista, anche la parola latina celebrare avrebbe sullo sfondo il verbo greco kaleo – ma è convocata da Dio: «La chiesa deriva dall’adorazione, dalla missione di glorificare Dio […]. L’ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia […]. Nella storia del dopo concilio la costituzione sulla liturgia non fu certamente più compresa da questo fondamentale primato dell’adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia […]. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l’essenziale va sempre più perduto».
All’inizio della riforma non si mise in discussione la croce sull’altare o in alto, in modo che lo sguardo del prete da una parte e dei fedeli dall’altra potessero soffermarsi su di essa. Poi pian piano si è teorizzato che poteva essere spostata ad un lato; infine è finita alle spalle del sacerdote – sovente insieme al tabernacolo– e non è più oggetto di attenzione; questo accade mentre il filorientalismo moltiplica le icone ai lati dell’altare nella speranza che siano più venerate. Vuol dire che si sente ancora l’esigenza di aiutare i fedeli a soffermarsi sull’immagine.
Poi, la celebrazione odierna mette il prete al centro con la sua sede: è diventata una liturgia versus presbyterum, non più versus Deum! Il sacerdote è diventato più importante della croce, dell’altare e del tabernacolo! Impariamo dalla liturgia orientale e dalla messa antica ritenuta clericale, in cui la cattedra del vescovo e la sede del celebrante stanno a destra e a sinistra dell’altare, in modo da non dare le spalle e da permettere di guardare lo stesso altare e la croce, insieme il grande segno di Cristo, e nello stesso tempo di essere in testa all’assemblea dei fedeli. Senza fare grandi lavori tutto questo si può attuare, in particolare la croce deve tornare al centro dell’altare o sopra di esso, come Benedetto XVI ha ripreso a fare nelle celebrazioni da lui presiedute. Solo Cristo può essere al centro degli sguardi di tutti (cfr Lc 4,21). Se i segni valgono qualcosa! La sacra liturgia ha bisogno della nostra umiltà: «Ti preghiamo umilmente». L’umiltà è la vera misura della liturgia e di conseguenza di noi stessi, perché siamo creature e bisognosi di tutto. Così intesa l’umiltà è verità. Non è la vera adorazione quella fatta in spirito e verità? È alla verità che tende l’intelletto. La mediazione tra Dio è il popolo è del tutto sottomessa a quella di Gesù Cristo, non il momento dell’autorealizzazione. Perciò il sacerdote deve avere coscienza di non poter mettere in primo piano se stesso e tanto meno le sue opinioni, ma solo Cristo. Il senso vero di pròestos, incomprensibile con la parola ‘presidente’, è stare davanti agli altri e in tal senso prae-sedens. Dalla Didascalia siriaca si deduce che il vescovo stava davanti o in testa alla comunità che guardava l’altare verso oriente, tant’è che gli si chiede, nel caso entrasse un povero, di cedergli il posto, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato seduto di fronte e su un trono.Ancora una volta questo vuol dire umiltà (cfr Sacramentum caritatis, 23).

Particolare della Madonna nella chiesa di San Cristoforo detta anche chiesa della Confraternita della Buona Morte, è un luogo di culto cattolico ubicato nel centro storico di Ascoli Piceno, nel quartiere di Santa Maria Intervineas.

Se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi «del valore e della santità del nuovo rito», tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che «nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Le parole di Benedetto XVI richiamano queste altre: «se da una parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza e lo studio della liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall’altra notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all’intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso principi che, in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica».
Chi le ha scritte è Pio XII, nell’introduzione dell’enciclica Mediator Dei. La logica è la medesima: la tradizione è necessaria e l’innovazione ineluttabile, ed entrambe sono nella natura del corpo ecclesiale come del corpo umano. Non si oppongono ma sono complementari e interdipendenti. Pertanto non ha senso essere ad oltranza innovatori o tradizionalisti. Semmai bisogna incontrarsi e confrontarsi senza pregiudizio e con grande carità. Pio XII non si limitò ad enunciare la dottrina mediante l’enciclica, ma fece seguire le riforme: il permesso di usare le lingue locali accanto al latino per alcune parti dei riti liturgici in quei paesi europei e latino-americani dove l’unità cattolica non era a rischio; il permesso a determinate condizioni di celebrare la messa vespertina (1957), riscoprendo il giorno liturgico; la revisione delle norme sul digiuno eucaristico (1953) e le indicazioni per il rinnovamento della musica sacra sulle orme di san Pio X. E’noto che già nel 1946 «Pio XII aveva istituito una commissione per la riforma generale della liturgia, che avrebbe iniziato i propri lavori nel 1948 e che, nel 1959, sarebbe confluita nella commissione preparatoria del concilio per la liturgia. Non è dunque fuori luogo affermare che la costituzione sulla liturgia del Vaticano II aveva cominciato ad essere predisposta fin dal 1948, prendendo spunto dall’enciclica». L’approfondito lavoro preparatorio eviterà al progetto di costituzione conciliare, a differenza di tutti gli altri, la bocciatura. Tutto questo prende avvio dall’enciclica Mediator Dei, e farebbero attribuire al grande pontefice anche il titolo di «divini cultus instaurator». L’enciclica costituisce ancora un termine di confronto per il dibattito tra tradizione e innovazione. Pio XII, riallacciandosi alla costituzione Divini cultus del suo predecessore Pio XI, osserva che la gerarchia ecclesiastica «non dubitò, salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti, di mutare ciò che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della augusta Trinità, all’istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano» (I,4). La liturgia infatti è composta di elementi divini e umani: «di qui viene che talvolta sono richiamate nell’uso e rinnovate pie istituzioni obliterate nel tempo» (I,4). È il criterio che guiderà il Papa nel restauro del rito della Settimana Santa, rimettendo in uso le tradizioni antiche e che sarà recepito dalla costituzione conciliare (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 50). Il Papa Paolo VI riusciva ad applicarlo ancora nell’edizione del Messale Romano del 1965, quando preservava la messa antica, alleggerendola da duplicati tardivi. Esso torna in auge col motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Quel criterio, secondo la Mediator Dei, presiede all’evoluzione dei riti, ma senza cadere nell’archeologismo: «La liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore. […] Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo» (I,5). La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che «per tutelare la santità del culto contro gli abusi» esiste la congregazione dei riti. La liturgia è manifestazione della chiesa corpo e capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla costituzione liturgica (cfr n 21).
Forse ciò che ha condizionato la riforma dopo il Concilio è stato proprio l’archeologismo, che ritiene di dover tornare all’inizio, ma invalidando i passaggi della tradizione.

 

Per approfondimenti:
_H.J.Schulz, The Bizantine Liturgy. Symbolic structure and Faith Expression, New York 1986;
_Discorso di Benedetto XVI al clero di Bolzano-Bressanone, 6 Agosto 2008;
_L’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium, in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B. 2004;
_A.Tornielli, Pio XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro, Milano 2007.
 

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Il significato degli «ex voto»: per grazia ricevuta

Il significato degli «ex voto»: per grazia ricevuta

di Giuseppe Baiocchi 26-09-2019

Nel «mondo di ieri», dopo aver ricevuto una “grazia”, era uso e costume chiedere al miglior artigiano della città di costruire un oggetto da offrire ad un Santo, per la grazia ricevuta. Tale manufatto prendeva il nome di «ex voto» e doveva possedere caratteristiche di rilievo sotto il punto di vista estetico, poiché rappresentava un gesto pubblico o privato nei confronti di un Santo cattolico, che, essendo stato pregato o evocato, aveva interceduto presso il comune mortale, salvandolo da morte certa.
Inizialmente vi furono originali pitture su tavoletta, dove si narrava in formato figurativo l’evento miracoloso: colori accesi per raffigurare il vissuto con una tecnica vicina alla pittura naïf. Numerosi i calchi in cera con raffigurazioni di gambe, braccia e piedi; fino ad arrivare ai sacri cuori in argento o semplicemente di latta.

Ex-voto Sacro Cuore (particolare) in cesellatura barocca di grandezza 50cm, Napoli.

Tali manifatture collocati sia in santuari o recentemente in veri e propri musei, porta l’osservatore ad intraprendere un percorso umano pieno di pietas, dolente e festante, la quale stimola riflessione. Difatti il devoto raffigurato può assumere, nei confronti della entità trascendente a cui si è rivolto nel momento di angoscia causatagli da malattia, una raffigurazione di avversità, pericolo, infortuni, calamità. Semplicemente gli «ex voto» sono un pegno di fiducia nell’intercessione dell’ente ultraterreno che si è invocato e testimoniano il beneficio ricevuto, il quale viene dimostrato pubblicamente come segno visibile della presenza sia dell’offerente beneficato sia del protettore intercedente.
E, indipendentemente dal motivo determinante, sono una prova tangibile di fede, quella che ha spinto il credente a «fare il voto», cioè a manifestare una promessa per ottenere un aiuto o a renderne grazie per averlo ricevuto, promessa che si attua in una forma concreta rappresentata da un proprio ritratto, da riproduzioni di parti anatomiche, da oggetti di varia natura, da tavolette figurate.
Inizialmente si fece uso del ritratto in cera, in legno, in tela, in gesso o addirittura su carta, ma nel tempo prese piede l’immagine fotografica e l’offerta degli oggetti di vario genere, come quella dei quadretti dipinti: mantenuta inalterata fino ai nostri giorni. Proprio quest’ultima tecnica tipologica si è ancor più diversificata, passando dal semplice dono di riproduzioni in cera, argilla, metallo di parti anatomiche – come occhi, mani, braccia, mammelle, piedi, gambe, seni -, avente forte legame figurativo con l’apparato fisico malato da guarire o già sanato; a quello  più elaborato, di vere e proprie tavolette dipinte, litografate, ricolme di immagini e segni simbolici atti a illustrare l’evento drammatico che l’offerente ha vissuto e nella cui positiva risoluzione ha creduto di ravvisare un intervento soprannaturale soccorritore.

Sulla sinistra: tavoletta ex-voto ad olio, raffigurante una grazia per una famiglia aristocratica. Sulla destra, tavoletta ex voto proveniente dal Santuario di Madonna dell’Arco: “racconto” di un incidente avvenuto nei campi e diviso in due parti: un uomo colpito da un ramo e poi disteso sul letto con accanto un sacerdote, mentre i familiari invocano la grazia della Vergine;

La terminologia “ex voto” che introduce questi oggetti sacri nel linguaggio odierno è ormai da tempo accolto senza modifica dall’originale in lingua latino: «ex voto suscepto», cioè «per promessa fatta», ovvero «conforme alla promessa», sottintendendo, nella nostra cultura cristiano-cattolica, «a Dio, alla Madonna o ad un Santo». Il riferimento implicito è riferito sia ad un aiuto concesso sia ad un soccorso atteso. Esso indica un qualsiasi oggetto idoneo a testimoniare la riconoscenza del donante per la favorevole mediazione ottenuta o aspettata dall’uomo che ha supplicato nelle sue contingenti difficoltà e, pertanto, sta a designare, nella sua consistenza materiale, un’attestazione adatta a rendere pubblica la sua gratitudine o la fiducia verso chi si è rivolto.
Dunque l’ex voto è de facto un «documento» di momenti delicati o critici dell’esistenza umana: un pericolo scampato, una guarigione conseguita, una calamità naturale evitata e una prova superata.

Sotto il profilo antropologico, gli ex-voto attestano usanze storiche vernacolari e singolari di forte valore sociale e parallelamente dimostrano grande rilievo artistico-manifatturiero, presente specialmente in quelli pittorici i quali sono meglio adatti ad offrirci ben distinguibili gli aspetti e le forme della vita quotidiana di un gruppo sociale, rappresentato nella sua articolazione di classe popolare, borghese o aristocratica. Le diffuse e caratteristiche tavolette dipinte ci svelano i ceti sociali di ogni usanza e credenza: le particolari fogge di vestiario, gli ambienti abitativi rustici e urbani di riferimento, gli strumenti di lavoro usati nei vari mestieri e nelle diverse professioni, i sistemi di lavoro agricoli e pastorali, le abitudini alimentari e le ritualità gastronomiche, le cure mediche adottate, le cornici sfarzose o spoglie caratterizzanti le cerimonie liturgiche e laiche. Gli ex-voto fanno anche conoscere i mezzi di locomozione e trasporto adoperati, che coi loro dettagli rivelano con chiarezza i segni del progresso, spaziando dai modesti carri e calessi alle eleganti carrozze e diligenze, dal lento velocipede alla rombante motocicletta e alla veloce automobile, dalla modesta imbarcazione al gigantesco piroscafo, dal lento asinello al celere treno, dalla vagabonda mongolfiera al più governabile aereo.

Sotto il profilo teologico invece, le Sacre Scritture ci confermano che l’ex-voto non è una peculiarità devozionale esclusiva del cristianesimo, poiché era ben chiaro ai Greci, che chiamavano ikesìa il dono fatto per chiedere una grazia e soterìa quello per grazia ricevuta, e successivamente i  Romani, distinguevano con la sigla VFLM, cioè Votum Feci Libens Merito, il dono fatto per chiedere una grazia, e con la sigla VFGA, ovvero Votum Feci Gratiam Accepi, quello per una grazia ricevuta. Quest’ultimo ovvero «Votum Feci, Gratiam Recepi», traducibile in «Ho fatto il voto, ho ricevuto la grazia» e riassumibili in «Voto fatto, grazia ricevuta», locuzione spesso abbreviata nelle formule «GR» (Grazia Ricevuta), «PGR» (Per Grazia Ricevuta), «PGF» (per Grazia Fatta) presenti su tanti doni votivi e riscontrabili anche negli ex-voto polimaterici, prodotti cioè  con materiali insoliti e tecniche atipiche, come quelli eseguiti con carta ritagliata, quelli consistenti in collages fotografici, quelli fatti in tessuto adorno di ricami, trine, paillettes, filigrane,  tutti per lo più così delicati da richiedere di essere conservati in astucci, bacheche, teche, scarabattole  o ritenuti così gradevoli da meritare l’esposizione in adeguate cornici.

Essendo un sentimento religioso, l’ex-voto offerto è una vera e propria preghiera di deferente venerazione basata sul bisogno di offrire a Dio, alla Madonna, a un Santo un dono equivalente ad una preghiera concretizzatasi in un manufatto.
Sicuramente più nota è la continuità degli ex-voto in matrice cristiano-cattolica dove la sua tipologia è rimasta molto variegata, passando dalla forma più semplice e diffusa degli ex voto denominati «anatomici», costituiti dalla riproduzione nel più idoneo materiale delle parti del corpo poste sotto la protezione della Madonna o del Santo o da essi guarite, a quella degli ex-voto «oggettuali», formati appunto dagli oggetti più vari, connessi ad eventi di vario genere, per giungere a quella più comune, ma complessa, elaborata e ricca di interessi storici, iconografici ed espressivi come le tavolette o le tele dipinte, ritenute molto idonee a illustrare la situazione d’ansia o drammaticità vissuta dall’offerente e nella quale la mediazione soprannaturale si è resa manifesta.
Con la riforma liturgica avvenuta durante il Concilio Vaticano II (1962-65), gli ex-voto hanno iniziato un lento declino che ha portato questi oggetti sacri, di cui è vietata la vendita a livello dottrinale, alla loro dismissione dalle Chiese e dai santuari. Finiti ben presto in un modesto e triste mercato nero degli oggetti liturgici, insieme a candelieri barocchi e carteglorie, oggi tristemente sembra non essere più un’ex pratica. Difatti spesso è diventato distintivo del culto oggi più diffuso: quello della personalizzazione, ancor prima che della persona. Non più circoscritto in un riconosciuto luogo di fede, ma mobile: l’ex-voto si tatua sulla pelle, si stampa sulle magliette, diventa screenshot, meglio ancora se su un dispositivo “touch”, perché una “toccatina”, «porta sempre bene». L’errore dunque della contemporaneità è lo scambio di questo importante pezzo antropologico europeo, come «portafortuna»: è tutto l’esatto contrario. Difatti l’ex-voto ha valore solo ed unicamente quando un miracolo avviene realmente e il beneficiario, che ha invocato un Santo, ha salva la vita e vuole dimostrare riconoscenza terrena verso l’entità ultraterrena. Serve all’uomo per ricordare la forza della fede agli uomini che possano aver smarrito quest’ultima.

 

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Il corpo è sacro. Un dialogo con Giovanni Gasparro

Il corpo è sacro. Un dialogo con Giovanni Gasparro

di Michele Lasala 28/06/2019

Umberto Galimberti una volta ha sostenuto che se togliessimo la parola “Dio” al Medioevo, non saremmo più in grado di comprenderlo; mentre se la togliessimo alla nostra epoca, continueremmo a comprenderla ugualmente. La dimensione del sacro, in effetti, non trova più spazio nel nostro tempo e le nostre stesse vite sono prive quasi del tutto di spiritualità. Nel Medioevo il senso religioso caratterizzava ogni azione dell’uomo e l’arte ne era il riflesso più immediato: la mano dell’artista era guidata da Dio. Dalla maestose cattedrali ai magnifici codici minati, dalle stupende tavole dai fondi oro alle sculture che ornavano chiese e monasteri, l’arte ha sempre cercato di rappresentare e rendere visibile ciò che agli occhi non è dato vedere: lo spirito. L’arte così era in grado di aumentare l’esistenza e far comprendere che la realtà non è riducibile al solo «dato» sensibile.

Speculum Iustitiæ: Olio su specchio e legno dorato, perle ed incisioni a bulino, 200 X 120 cm, 2018. Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini.

Essa allora elevava l’anima e la avvicinava a Dio. E il cielo, quale luogo del Paradiso, così come era inteso dagli stessi artisti, era lo spazio infinito verso cui lo sguardo dell’uomo era indirizzato, la sede della beatitudine e della salvezza.
Oggi però le cose, nella vita, e nell’arte, sono un po’ cambiate rispetto all’età medievale. Gli uomini non sono più abituati a guardare verso il cielo, ma in basso, verso la terra, verso l’asfalto, verso i rifiuti e gli escrementi. Non essendoci più Dio, non c’è più neppure la luce celeste. Regnano soltanto le tenebre dell’incoscienza.
Quando Nietzsche, ne La Gaia scienza, faceva urlare, nella chiara luce del mattino, il folle con in mano una lanterna accesa «Dio è morto! Dio resta morto! E noi lo abbiamo ucciso», il folle era al mercato. Il mercato infatti è la dimensione più naturale entro cui si muove e trova agio l’uomo contemporaneo. Nietzsche scriveva sul finire dell’Ottocento, ma già guardava al secolo che stava per aprirsi. La trasvalutazione di tutti i valori e il crepuscolo degli idoli erano i prodromi di quella che sarebbe stata la tragica cifra del secolo XX: il nichilismo. Cartesio, Hegel, Marx con l’idealismo hanno sostituito l’uomo a Dio: il Novecento infatti è stato attraversato, lungo l’intera sua parabola, da una sola idea martellante e inquietante: la vita è sospesa sul nulla. E l’arte ha smesso così di rappresentare il sacro. Decadute e dissolte le grandi narrazioni – di cui poi avrebbe parlato Jean-François Lyotard (1924 – 1998) nel suo La condizione postmoderna all’imbrunire degli anni Settanta – che in qualche modo offrivano orizzonti di senso e creavano i presupposti per costruire e sviluppare discorsi o comunque conferire significato alle cose, terrene e ultraterrene, il mondo si è svuotato via via di contenuti.
L’uomo finalmente si è scrollato di dosso un universo simbolico fatto di immagini e di parole e ha cominciato a vedere tutta la realtà attraverso la logica malsana e sterile dell’utile. La poesia ha lasciato spazio al numero, e il bello al brutto. Il cretinismo economico, di gramsciana memoria, secondo cui tutto deve essere calcolato e misurato nei minimi dettagli, è il prodotto più naturale della perdita sistematica di valori, nello spazio comune del mercato, dove il reale si riduce a un insieme di merci da scambiare e il materialismo diventa l’unica vera religione cui avere fede. Credere nell’utile e nel profitto, perseguire idiotamente il principio dello sfruttamento delle risorse, guardare le cose attraverso l’ottica heideggeriana della utilizzabilità, sono la litania dell’uomo che vive nell’era della tecnica. In questo terrificante scenario, dove l’anima fa fatica ad emergere e a esprimersi, e dove l’uomo ha perduto se stesso, anche l’arte si è svuotata di senso e si è così ridotta a puro prodotto commerciale. Se un tempo gli artisti creavano per resistere al tempo e esprimere concetti assoluti, trascendenti, ma fondanti il mondo stesso e la vita, oggi pare che l’artista persegua l’ideale del transeunte. Le sue opere nascono già morte e sono destinate ad essere dimenticate. Basterebbe dare un rapido sguardo alla Biennale di Venezia da poco inaugurata.
Sembra inoltre che gli artisti abbiano oramai rinunciato a dipingere, a fare buona pittura. La figurazione è cosa ritenuta antiquata e appartenente al passato. Oggi l’arte deve passare attraverso un astrattismo delle installazioni, dei video o delle performance delle più imprevedibili, delle più impensabili, delle più estreme.

San Nicola di Bari schiaffeggia l’eresiarca Ario (particolare). Olio su tela, 100 X 120 cm, 2016. Image copyright © Archivio dell’Arte / Luciano Pedicini.

Ma perché l’epoca odierna insiste sul concetto dell’astratto? Semplicemente perché dagli inizi del Novecento è iniziato quel processo che ha portato alla distruzione del volto umano e dell’identità, figurativa appunto, dell’Europa. L’appiattimento etnico si è mosso parallelo all’estirpazione delle radici cristiane in Europa e l’arte, così come l’architettura, sono state le discipline principali per lo svolgimento di tale processo storico pianificato.
Chi oggi usa il pennello e la tela, rischia di restare fuori dal circuito internazionale della grande arte contemporanea. Ancor peggio poi se tenta di dipingere il sacro in un mondo oramai privo di spirito.
Ma c’è chi – al di là delle mode e della tendenza generale dell’arte del nostro tempo – riesce a resistere e a imporsi coraggiosamente come artista figurativo, per giunta di arte sacra. Questi è Giovanni Gasparro (1983). Per nulla provinciale o marginale, egli è uno degli artisti italiani contemporanei più illustri sulla scena mondiale. La sua pittura, che affonda le radici nella tradizione artistica del Seicento italiano, olandese e spagnolo, avendo punti di riferimento impareggiabili che vanno da Mattia Preti (1613 – 1699) a Rembrandt Harmenszoon van Rijn (1606 – 1669), passando per Diego Rodríguez de Silva y Velázquez (1599 – 1660), è l’espressione di uno spirito che arde e che cerca di esprimere l’invisibile attraverso il visibile. L’immagine per Gasparro diventa lo strumento per comunicare l’Eterno, per esprimere il Verbo, anche quando nei suoi dipinti non vediamo né santi e né Cristi. Il sacro è infatti nelle cose stesse, nella luce, perfino nelle fitte ombre che richiamano il linguaggio estetico dei caravaggeschi. Oppure negli sguardi, nelle mani, nella carne degli uomini rappresentati. Nel corpo. Il volto dell’uomo è di per sé epifania dell’Infinito, nei suoi lavori, esattamente come intendeva il filosofo lituano Emmanuel Levinas (1906 – 1995). Per l’artista pugliese il sacro non è solo spirito, è anche corpo. Anzi si potrebbe perfino dire che proprio attraverso il corpo è possibile giungere allo spirito, a quelle che egli stesso chiama «verità di sempre», soprattutto in un mondo che vede oramai la carne soltanto come materia, o addirittura merce di scambio.
Con Gasparro possiamo capire finalmente che l’arte contemporanea non è solo quella che fa mostra di sé tra i padiglioni della Laguna, che dipingere non è un atto sorpassato, che la figurazione non è accademismo, che l’arte sacra non appartiene solo alla storia delle arti, che il corpo non è soltanto un complesso di cellule e molecole, e che il nome di Cristo non deve destare nessuna vergogna. Capiamo inoltre che lo spirito non è morto. Esso piuttosto sonnecchia, e aspetta soltanto di essere illuminato, chiamato, in qualche modo risvegliato dal sonno dogmatico dell’imbecillità.

San Francesco d’Assisi ricevuto da papa Innocenzo III (particolare). Olio su tela, 199 X 165 cm, 2016. Trani, Chiesa di San Francesco d’Assisi. Image copyright © Archivio dell’Arte / Luciano Pedicini.

Crediamo che l’arte sia il mezzo più adeguato per risvegliare la coscienza dell’uomo e spalancare i suoi occhi sulla eterna bellezza del Creato. Per questa, e per altre ragioni, abbiamo pensato di dialogare col Maestro, ringraziandolo per il tempo che ci ha donato e per le belle e illuminanti parole con cui ha risposto alle nostre domande.

 

D: Giovanni Gasparro, la tua prima mostra personale risale al 2009, a Parigi, l’ultima invece è di quest’anno e ha sede nel Museo della casa natale di Cima da Conegliano, “Giovanni Gasparro. Tra uomo e Dio”, a cura di Grazia Maria Curtarelli, aperta sino al 30 giugno. Dieci intensi anni separano le due mostre, anni costellati da importanti riconoscimenti, esposizioni personali e collettive, in Italia e nel mondo. Il giovane ragazzo di Adelfia si è fatto strada e ha varcato i confini nazionali. Quanto Gasparro, uomo e artista, è cambiato in questo breve, ma pur sempre ricco, arco cronologico?
R: Le vicissitudini della vita e dell’arte sono state talmente pregnanti da cambiarmi radicalmente. Credo questo sia percepibile nei miei dipinti, sia nel valori cromatici e luministici, che in quelli iconografici e contenutistici. Il cambio di rotta è di tutta evidenza nella mostra di Conegliano. Essendo un’antologica, con ben trentaquattro opere, analizza e mette in scena il mio percorso creativo dal 2004 ad oggi. I saggi in catalogo di Grazia Maria Curtarelli, così come quelli di Jacopo Scarpa, Cesaremaria Glori, Carlo Manetti e Cristina Siccardi, chiariscono le ragioni delle mie scelte stilistiche ed artistiche in genere.

D: Non molto tempo fa ti viene assegnata la cattedra di Tecniche pittoriche all’Accademia di Belle Arti di Lecce, incarico molto prestigioso, che tu però rifiuti. Hai preferito investire tutto il tuo tempo nel fare pittura piuttosto che insegnarla, come se la didattica in qualche modo avrebbe potuto uccidere l’artista. Quale significato assume per te il dipingere? È solo questione di tecnica o c’è dell’altro?

R: La scelta di rinunciare alla cattedra di Tecniche pittoriche dell’Accademia di Belle Arti di Lecce è stata dettata dalla mia scarsa attitudine e propensione verso l’insegnamento. Da tempo ero in graduatoria ma non ho mai insegnato. Temo di non essere portato per questa nobile professione, allo stesso modo in cui supponevo e prefiguravo che l’insegnante avrebbe mortificato l’artista, il docente avrebbe dovuto sacrificare troppo tempo al lavoro in studio. Per mia natura, quando sposo un progetto o assumo un incarico, cerco di prodigarmi in modo totalizzante e serio. Non avrei potuto continuare a dipingere con l’afflato e la dedizione attuale, se avessi accettato di insegnare in Accademia. C’è chi ci riesce perfettamente. Grandissimi artisti del passato lo hanno fatto. Io accetto il mio limite e rinuncio. Preferisco dedicarmi interamente alle mie opere, almeno per il momento, perché il dipingere è uno spazio vitale che merita totale abnegazione, ricerca, riflessione. La mera realizzazione tecnica dell’opera, non è che la sezione terminale del lavoro del pittore. Gran parte dell’esecuzione è pregressa, concettuale, progettuale, ideale. La fase tecnica è strumentale a traslare visivamente l’idea primigenia. Non sarebbe possibile scindere le due componenti e i due momenti della creazione. Per questo molta parte dell’arte contemporanea che ha enfatizzato in modo ipertrofico e preponderante il dato concettuale, a scapito di quello tecnicistico, ha tradito il linguaggio dell’arte e risulta incomprensibile. L’arte deve avere un canale di fruizione visivo e tattile, non può rinunciare a questo, altrimenti sarà destinata ad un elitarismo autoreferenziale che la renderà sterile. Per le summenzionate ragioni, molte presunte avanguardie ed espressioni del postmodernismo sono destinante, inevitabilmente, ad essere archiviate dopo l’attuale stagione di consensi di critica e mercato.

Amoris laetitia. San Giovanni Battista ammonisce l’adulterio di Erode Antipa ed Erodiade (particolare). Olio su tela, 100 X 150 cm, 2017. Bari, Collezione privata. Image copyright © Archivio Luciano e Marco Pedicini.

D: Gran parte della tua produzione è fatta di immagini sacre. E la tua stessa vita è intrisa di senso religioso. La fede alimenta la tua pittura o è la pittura ad accrescere la fede? Detto in maniera diversa: credere in Dio è una forza che permette la creazione artistica o è proprio la creazione artistica che dimostra e manifesta l’esistenza del Trascendente?
R: Nella mia esperienza, la fede ha alimentato costantemente l’ispirazione artistica che ha beneficiato delle infinite declinazioni iconografiche, derivanti dalle narrazioni neo e vetero testamentarie, così come dalle vite dei santi. La fede ha donato anche un senso in termini di militanza, ha strutturato la pittura nei codici apologetici, per divenire essa stessa strumento di propagazione della Verità rive-lata. La mia pittura sacra non vuole essere esercizio di stile, non cede alla rievocazione di iconografie stanche e sedimentate nella memoria collettiva per ripercorrere in senso citazionistico le imprese artistiche della grande arte antica. Dipingo per testimoniare le verità di sempre, in quanto eterne ed immutabili, nell’unico vero Dio, la Santissima Trinità, così come codificate nel Credo cattolico, niceno-costantinopolitano. Posso attestare come dipingere nell’alveo della Tradizione iconografica cattolica abbia accresciuto la mia ispirazione e non abbia mai costituito un limite angusto.

 

D: Il 2016 è l’anno della importante mostra Giovanni Gasparro versus Mattia Preti, a cura di Fabio de Chirico. Questo dialogo serrato tra te e il Cavalier Calabrese solleva la questione dell’eternità dell’arte, della sua capacità di attraversare i secoli e di trascendere il contingente. Un artista contemporaneo che duella e si confronta con un maestro del passato. Tutta l’arte può essere definita “contemporanea”?
R: Tutta l’arte è da ritenersi contemporanea se considerata nell’accezione della fruizione, ovvero del frangente temporale in cui è conosciuta da chi la osserva. Molti autori che oggi non esitiamo a definire geni indiscussi del loro tempo, per decenni o secoli interi sono stati eclissati dalla critica o ignorati dagli studi. Si pensi a Caravaggio riscoperto nel secolo XX o all’opera di studio sugli artisti dell’Ottocento italiano, da sempre negletti nel nostro Paese, per colpa del pregiudizio settario degli storici dell’arte influenzati da Giulio Carlo Argan (1909 – 1992). Potrei portare innumerevoli esempi ma mi basterà citare il paradigma archeologico per antonomasia. Pompei ed Ercolano ebbero una rinascita nel XVIII secolo per l’impulso degli scavi borbonici ed i riverberi si propagarono nell’arte neoclassica italiana, francese, inglese, così come in tutta l’Europa e le Americhe. La Pompei romana divenne arte contemporanea in pieno Settecento, non solo in pittura, scultura ed architettura, ma persino nelle arti applicate, nella moda, nelle porcellane. Le linee di demarcazione sono strutture storico-critiche buone per creare sistemi di studio e catalogazione, eccellenti sul piano della conoscenza, meno efficaci su quello dell’analisi della fenomenologia artistica contingente. In Italia, oggi, è ancora molto vivo il pregiudizio critico secondo cui un musicista non possa più comporre musica tonale, un artista d’arti visive non debba dipingere arte figurativa, uno scrittore non possa che allinearsi al sistema narrativo di Joyce e così via discorrendo per tutte le arti. Eppure grandi geni come Giuseppe Tomasi di Lampedusa (1898 – 1957), Fausto Calogero Pirandello (1899 – 1975), Nino Rota (1911 – 1979), Carl Orff (1895 – 1982), Sergei Vasilyevich Rachmaninoff (1873 – 1943), attestano l’esatto contrario e smontano le sovrastrutture ideologiche post-moderniste. Si può ancora dipingere, scolpire, comporre e scrivere, con codici legati alla tradizione, calando queste espressioni d’arte nel nostro tempo. Senza citare pedissequamente le opere antiche, ci si può educare al gusto ed al senso intellettuale che le ha animate. Nel mio caso, per bontà di grandi e generosi direttori di musei e storici dell’arte che hanno curato le mie mostre, è stato quasi naturale affiancare i miei dipinti a quelli degli antichi e dei moderni, da Bernardo Strozzi (1581 – 1644) a Felice Casorati (1883 – 1963), da Guido Reni nel Casino dell’Aurora di Palazzo Pallavicini Rospigliosi sino alla Madonna della Pace del Pinturicchio a San Severino Marche ed ovviamente la grande monografica in Galleria Nazionale di Palazzo Arnone, a confronto con Mattia Preti, perché la pittura barocca della stagione controriformista napoletana e padana, fiamminga, olandese e spagnola, resta il mio più immediato termine di paragone.

Pio VI Pontefice Massimo (particolare). Olio su tela, 90 X 70 cm, 2016. Bruxelles, Collezione privata. Image copyright © Archivio dell’Arte / Luciano Pedicini. Pio VI dopo essere stato rapito dai giacobini francesi, trascorse l’ultima porzione della sua dura carcerazione, per essersi opposto al potere dell’anti-Cristo Napoleone, a Valence-sur-Rhône in Francia. Il 19 agosto Pio VI si ammalò gravemente. Morì nel pomeriggio del 29 agosto. Il suo corpo rimase insepolto per ordine delle autorità comunali giacobine. Il 29 gennaio 1800 Pio VI fu sepolto, come un comune cittadino, nel cimitero civico. Sulla cassa fu scritto: «Cittadino Giannangelo Braschi – in arte Papa». Dopo quasi due anni il nuovo pontefice, Pio VII, riuscì a persuadere il municipio a consegnargli le spoglie. Il corpo venne riesumato il 24 dicembre 1801. La salma fu imbarcata a Marsiglia per Genova e fu esposta più volte alla venerazione dei fedeli. Giunta a Civitavecchia il 10 febbraio 1802, ottenne finalmente le esequie ufficiali il 17 febbraio, in una cerimonia presieduta dallo stesso Pio VII. Il giorno dopo, la salma del pontefice ricevette degna sepoltura nella Basilica di San Pietro. Per decreto di papa Pio XII, nel 1949, i resti di Pio VI vennero spostati dalla Cappella della Madonna di San Pietro nelle Grotte Pontificie, posti in un antico sarcofago romano di marmo ritrovato durante gli scavi. Sopra la sua tomba, appesa al muro, venne posta una lapide con la seguente iscrizione: «I resti mortali di Pio VI, consumati in un ingiusto esilio, per ordine di Pio XII vennero deposti in una degna e decorosa collocazione, illustre per arte e storia, nel 1949».

D: Nei tuoi lavori ci sono delle costanti, degli elementi ricorrenti, come le mani che si moltiplicano, gli specchi, i volti che si sdoppiano.. Ciò che li lega è proprio il fatto di raddoppiare la realtà, aumentarla. Ma è anche vero che lo specchio come le mani o i volti sono lo strumento attraverso cui traspare l’anima dell’uomo. Ci vuoi parlare di questa caratteristica della tua pittura?
R: Nei miei dipinti d’arte sacra e profana, le figure intere o almeno gli arti sono ripetute più volte, rimandando idealmente ad antiche iconografie sacre del XV secolo. Ho sempre guardato alle Arma Christi di area fiorentina e fiamminga, alla Pietà di Lorenzo Monaco (1370 – 1425) e del Maestro della Madonna Strauss, di Domenico di Michelino (1417 – 1491) al Musée des Beaux-Arts di Chambéry o agli affreschi del Beato Angelico nel convento fiorentino di san Marco. Il riferimento alle visioni estetiche avanguardiste del Futurismo e del Cubismo, che in tanti hanno evidenziato, non corrisponde ad un mio proposito ideale. A contrario, nella pittura di Balla, Severini e Boccioni, insieme all’esaltazione meccanica del movimento fisico, è sottesa l’ideologia modernista di rinnegamento e disprezzo della tradizione, tanto quanto nella scomposizione stilizzata di Braque e Picasso è presente, in nuce, il concetto di multiformità della visone e quindi quello di relativismo. Il carattere rivoluzionario del Futurismo, a scapito della tradizione, del museo, dall’accademia, è così evidente che fu lodato trasversalmente dai belligeranti fascisti mussoliniani come dal comunista ateo Gramsci che ne lodava il fervore distruttivo e dissacratorio. In ultima istanza, Futurismo e Cubismo possono essere ascritte nell’alveo del pensiero di Rivoluzione, la mia pittura e le mie molte mani in quello di Controrivoluzione.
D:Ecce Ancilla Domini, bellissima opera del 2014, rappresenta la Vergine Annunciata con le braccia alzate. Sulla parete posta alle sue spalle, un cordone, un rametto e un’asta di legno formano una croce ideale. Su questa croce si stampa netta l’ombra di Maria: chiara prefigurazione della Crocifissione. Tu dimostri così di possedere quella virtù che gli artisti oggi hanno purtroppo perduto: l’inventio. Virtù che nasce solo quando si possiede una adeguata conoscenza di ciò che i grandi maestri del passato hanno fatto. Ci spieghi quanto è importante conoscere il passato per poter fare il nuovo? Quanto è importante imitare per poi reinventare?
R: L’arte contemporanea ha peccato d’orgoglio. Da Duchamp in poi gli artisti hanno preteso di operare con una cesura netta, se non in pieno disprezzo formale ed ideale, verso la tradizione. Ma essa non è altro che una lunghissima sequenza di modelli creativi che nel corso del tempo si sono sedimentati, in costante equilibrio fra innovazione e sequela del passato. Talvolta, istanze “progressiste” e “passatiste”, così definite per mera semplificazione, si trovano a coesistere nel medesimo corpus creativo. Nella stessa cappella ed allo stesso ciclo di affreschi, potevano dipingere assieme il pittore tardo gotico Masolino da Panicale e l’innovatore Masaccio, seguito da Filippino Lippi. L’artista del nostro tempo deve comprendere che senza una piena conoscenza del passato non può costruire nulla che abbia un senso compiuto, così come chi volesse discettare dei fenomeni politici e sociali o antropologici odierni, non potrebbe razionalizzare compiutamente senza una consapevolezza delle storia passata, scevra da ideologizzazioni di sorta. D’altronde è sempre stato così. Rodin studiava Michelangelo che a sua volta guardava a Donatello e a ritroso sino alla statuaria ellenistica, Delacroix iniziò imitando Watteau e copiando Rubens, Tiepolo rinverdiva i cromatismi e le composizioni del Veronese. Nessun grande artista è nato senza radici. Hanno saputo continuare un percorso evolvendolo e declinando modelli passati, da cui sono stati soggiogati creativamente, al loro tempo, senza rotture brutaliste. Per questo, nelle chiese antiche, c’era un’armonia di fondo anche quando si sommavano elementi di epoche differenti. Gli interventi contemporanei d’arte sacra, sovente, sono in pieno disaccordo di volumi, cromie ed intenti con le opere preesistenti, salvo rarissime eccezioni.

Ecce Ancilla Domini (particolare). Olio su tela, 110 X 170 cm, 2014. Image copyright © Archivio dell’Arte / Luciano Pedicini.

D: «La bellezza salverà il mondo». Frase oramai sulla bocca di tutti sino a svuotarsi di significato. Vorrei che tu ci parlassi del bello e della sua importanza per lo spirito dell’uomo, per la sua vita così come per la società.
R: Il bello è lo splendore del vero, del bene e del ben fatto. San Tommaso d’Aquino, sommo filosofo e teologo domenicano, chiarisce che è una sintesi di vero e di bene. Verum, bonum, pulchrum, verità, bene e bellezza, sono proprietà immutabili di Dio. San Tommaso, sviluppando l’aristotelismo, afferma che non vi sia nulla nell’intelletto che non sia percepito aprioristicamente dai sensi. L’uomo ha anche la facoltà, attraverso la sensibilità, di saggiare la bellezza, provandone diletto, a contrario degli esseri irrazionali come gli animali. La volontà, naturalmente protesa verso il bene che l’intelligenza gli propone come vero, trova compiacimento nella conoscenza. Attraverso la bellezza dell’arte, intesa come rappresentazione del vero rivestito del bello, l’uomo è condotto più agilmente verso la verità ed il bene. Per questo le arti visive dovrebbero essere figurative, rigettando l’aniconismo tanto caro all’Islam, all’Ebraismo ed al Protestantesimo, sino alla parabola dell’arte astratta del Novecento, mostrando il bello del vero, in senso aristotelico-tomista. Le arti visive possono concorrere ad elevare l’uomo contemporaneo, con una ricaduta in termini sociali, etici, politici e spirituali, scardinando i sistemi criminali e di abbrutimento morale ed intellettuale. Se le nuove generazioni fossero adeguatamente educate alla conoscenza dell’arte, ed ancor di più della grande arte sacra, avrebbero un supporto concreto ed imperituro contro tutto ciò che consideriamo malvagio e deprecabile nella nostra società.

 

Per approfondimenti:
_Cristina Siccardi, L’arte di Dio – Cantagalli, 2017.

 

© L’altro – Das Andere – Riproduzione riservata

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Marcel Lefebvre: un arcivescovo nella tempesta

Marcel Lefebvre: un arcivescovo nella tempesta

di Cristina Siccardi del 01/04/2019

Monsignor Marcel Lefebvre è una delle sentinelle più importanti della Tradizione cattolica che si sono distinte nel XX secolo, è un paladino del Depositum Fidei di Santa Romana Chiesa, custode fedele della Santa Messa, dell’integrità del sacerdozio, del primato petrino, dal Credo stabile e fermo. Il suo nome, nell’immaginario collettivo, è spesso legato alla figura di un Vescovo “ribelle”, non obbediente alla Chiesa. Dagli anni Settanta del Novecento il solo pronunciarlo pareva evocare chissà quali negatività, chissà quali scissioni… Buona parte della pubblicistica e dei giornalisti l’ha dipinto come uno «scismatico», uno che voleva farsi una Chiesa tutta sua… In realtà fu una personalità scomoda perché parlò con coraggiosa chiarezza in un tempo di grande confusione nella Chiesa e nel mondo.

Marcel François Marie Joseph Lefebvre (29 Novembre 1905 – 25 Marzo 1991) è stato un arcivescovo francese di Santa Romana Chiesa.

Cavaliere senza macchia e senza paura, in profonda umiltà, ha realizzato un vero e proprio forte, Écône, dove proteggere e difendere la Tradizione dagli attacchi scristianizzanti, secolarizzanti e relativistici, un luogo dove continuano ad essere formati sacerdoti preparati, pronti al sacrificio e all’abnegazione, attenti, in qualità di Alter Christus, a curare e salvare le anime. Paolo VI nell’omelia del 29 giugno, giorno dei Santi Pietro e Paolo, del 1972 dichiarò con drammaticità: «attraverso qualche fessura il fumo di Satana è entrato nella Chiesa». Monsignor Lefebvre identificò qual era la fessura: il tentativo di allontanarsi dalla Tradizione.
Marcel Lefebvre nasce a Tourcoing (Francia) il 29 novembre 1905 da una famiglia cattolicissima, che donò alla Chiesa, a partire dal 1738, cinquanta suoi figli, tra i quali un cardinale, diversi vescovi, numerosi sacerdoti, religiose e religiosi. Il padre di Marcel, René Lefebvre (1879 – 1944), ricco imprenditore tessile ed esponente di spicco della resistenza francese, venne incarcerato dai tedeschi nel 1941 e trucidato nel lager nazista di Sonnenburg (Brandeburgo). La madre, Gabrielle Watine (1880- 1938), morta in odore di santità, ebbe otto figli, dei quali due maschi (René e Marcel) divennero sacerdoti e due femmine (Bernadette e Christiane) religiose. Marcel, dalla precoce vocazione, entrò in «Santa Chiara», il Seminario francese dell’Urbe, dove acquisì una formazione romana e, dopo aver regolarmente svolto il servizio militare in patria, si laureò in Filosofia ed in Teologia alla Pontificia Università Gregoriana. Il 21 settembre 1929 fu ordinato sacerdote a Lille, dove svolse un breve periodo come vicario in una parrocchia; entrò nel 1931 nella Congregazione missionaria dello Spirito Santo e partì per il Gabon il 12 novembre 1932.
Nei trent’anni di permanenza in Africa fece una prodigiosa semina evangelizzatrice, mietendo stima, considerazione, ammirazione. Appena giunto in terra di missione fu nominato professore di Dogmatica e di Sacra Scrittura al Gran Seminario di Libreville, che raggruppava tutti i seminaristi dell’Africa equatoriale francese.
Quando arrivava padre Marcel portava migliorie alla vita quotidiana. Cibo, indumenti, igiene, senso di vita e voglia di vivere per i popoli dei villaggi: l’evangelizzazione portava il benessere materiale, conseguente alla civilizzazione cattolica. Fondò scuole, seminari, chiese, invitando in Africa congregazioni e ordini religiosi, i quali apportarono una notevole ricchezza spirituale e carità cristiana.
Nel 1943 si trovò vacante il superiorato della missione di Lambaréné, perciò venne affidato all’instancabile padre Lefebvre, che qui rimase da aprile ad ottobre del 1945. Come era accaduto per altre stazioni missionarie, anche in questa si contraddistinse per la sua grande capacità organizzativa. Prima di tutto, però, era sacerdote. Battesimi, confessioni, comunioni, matrimoni, estreme unzioni, somministrati anche nell’ospedale fondato dal celebre medico tedesco Albert Schweitzer (1875 – 1965), luterano, verso il quale padre Marcel ebbe grande ammirazione e rispetto, ampiamente ricambiati, pur non condividendo la sua filosofia piuttosto incline al panteismo. Il dottor Schweitzer si recava alla missione di padre Lefebvre per curare i confratelli malati e il dottore alsaziano, musicista e amante di Bach, andava nella chiesa di San Francesco Saverio, nelle grandi solennità, per suonare l’organo.
Il ricordo di Monsignor Lefebvre, nell’Africa francofona, è ancora vivo, tanto che sono stati emessi francobolli con la sua effigie e sono state intitolate vie e piazze a suo nome. Rinvigorì quelle terre, portando la Buona Novella, sapendo dare al clero locale una spiccata vocazione evangelizzatrice, tanto da triplicare, tra il 1933 ed il 1947, la popolazione cattolica del Gabon; il Paese divenne il più cristiano dell’Africa francofona. Nel 1945 fu richiamato in Francia per assumere la direzione del Seminario dei Padri dello Spirito Santo a Mortain (Normandia). Nel settembre 1947, a 42 anni, monsignor Lefebvre fu, per volontà di papa Pio XII, consacrato Vescovo e nominato Vicario apostolico del Senegal.

Fu durante il regno di Pius PP. XII che l’arcivescovo Marcel Lefebvre fu consacrato vescovo, Arcivescovo di Dakar e Delegato Apostolico. Fu dalle labbra di papa Pio XII che arrivò il miglior tributo per lui: “L’arcivescovo Lefebvre è certamente il più efficiente e qualificato dei delegati apostolici”.

Un anno dopo venne nominato Delegato apostolico per tutta quell’Africa francofona di cui era divenuto punto di riferimento. Nel 1955 diventò il primo Arcivescovo di Dakar, quando in Senegal fu istituita la gerarchia locale. Restò Delegato apostolico fino al 1959 e Arcivescovo fino al 1962. In 11 anni di lavoro come Delegato apostolico le diocesi passarono da 44 a 65, inoltre a Dakar raddoppiò il numero dei cattolici e da 3 chiese presenti si arrivò a 13.
Nel 1962 fu nominato Vescovo di Tulle, piccola diocesi della Francia, quantunque già Arcivescovo, con plateale quanto inusuale, nella storia della Chiesa, umiliazione infertagli da Giovanni XXIII, nel compiacimento dell’episcopato francese e nell’accettazione, in spirito di obbedienza, dell’interessato. Nello stesso anno venne eletto Superiore Generale dei Padri dello Spirito Santo, funzione dalla quale si dimise nel 1968, a causa dei venti modernisti entrati nella Congregazione. Dal 1962 al 1965 fu padre conciliare e guida della resistenza conservatrice al Concilio Ecumenico Vaticano II, coagulata intorno al Coetus Internationalis Patrum. Forte fu la sua presa di posizione contro un Concilio pastorale nei cui dettami vedeva e denunciava pubblicamente le conseguenze scristianizzanti, irragionevoli, relativistiche e lassiste che ne sarebbero sorte. Oggi, a distanza di quasi trent’anni dalla sua scomparsa e a più di cinquanta dalla chiusura del Concilio, possiamo storicamente avvicinarci a lui con maggiore serenità e senza acrimonia, considerando questo sacerdote, non come il nemico di qualcuno, bensì come un impavido e lungimirante soldato di Cristo.
Lefebvre si presenta al Concilio Vaticano II come un riformatore pacelliano molto prudente. Siamo l’11 ottobre 1962 e dopo oltre un secolo la Chiesa Cattolica Romana si riunisce nuovamente. L’arcivescovo francese si presenta all’importante appuntamento come uno dei Padri Conciliari, con spirito relativamente fiducioso: reputa che la preparazione sia stata ben organizzata, ma ben presto inizia a rendersi conto che è presente un’incertezza “liberale” in seno al Concilio, verso la quale bisogna rispondere. Ma gli schemi preparati da Lefebvre in tre anni di lavoro vengono respinti fin dalle prime giornate di lavoro. Con grande prepotenza e fermezza si impongono nel Concilio alcuni uomini di Chiesa che possono essere definiti tranquillamente dei “rivoluzionari”, ispirati soprattutto dalla Nouvelle théologie di indirizzo francofono, ovvero da: Yves Marie-Joseph Congar (1904 – 1995), Marie-Dominique Chenu (1895 – 1990), Henri-Marie Joseph Sonier de Lubac (1896 – 1991), Karl Rahner (1904 – 1984) e Jean-Guenolé-Marie Daniélou (1905 – 1974). Inoltre tali tesi, trattandosi di un Concilio Pastorale e non Dottrinale, si diffondono e influenzano i vescovi, i quali – anche se dichiarano di non toccare il dogma cattolico, votano dei testi fondamentali che modificano i rapporti tra la Chiesa e il mondo. Lefebvre stesso riassume tali comportamenti con la frase: «è la rivoluzione francese». Ora, se la rivoluzione francese è liberté, égalité, fraternité, il Concilio si apprestava a scrivere una dichiarazione sull’importanza della “libertà di coscienza”. Condannata dai Papi nel XIX secolo, la “libertà religiosa” viene riconosciuta dal Concilio Vaticano II e dunque viene concesso ad ogni uomo il diritto di professare apertamente ciò che gli detta la coscienza: il voto provoca reazioni dal mondo intero. Secondo l’arcivescovo francese, la religione cattolica è nella verità, dunque solo la verità ha dei diritti e l’errore conseguentemente non può avere alcun diritto, «non si può mai avere un diritto naturale, cioè un diritto che in definitiva è dato da Dio – perché la Chiesa considera che è Dio che ci ha dato la natura».
Altro cardine nuovo del Concilio è la collegialità, ovvero il Governo della Chiesa vuole dare espressione a tutti: ancora liberté, égalité, fraternité. La collegialità è l’argomento che scatena passioni, poiché riguarda il potere del Papa e dei Vescovi; per Lefebvre e per tutto il filone tradizionalista, la collegialità è ingiusta per il dovere decisionale di un vescovo, poiché se c’è uguaglianza decisionale in seno ad una Conferenza Episcopale avviene la sottomissione di ogni singolo vescovo al giudizio del collegio. Dunque il potere del vescovo nella sua diocesi diminuisce in favore della centralità degli episcopati. Il Concilio modifica anche il rapporto con la Chiesa e le altre religioni: i separati dalla Chiesa, gli scismatici e gli eretici, sono considerati dei “fratelli nella fede”. Su tale punto ancora Lefebvre insiste: «quelli che si sono separati (dalla Chiesa Cattolica) tornino a me, sono loro a dover fare la strada, mentre adesso – questa la profonda novità dottrinale del Concilio – i cattolici ritengono che la conversione che avverrà all’unità della Chiesa non sia in qualche modo a senso unico, ma noi tentiamo, noi sappiamo, noi proclamiamo, noi altri cattolici, che dobbiamo fare un grande sforzo per poter accogliere tutti i nostri fratelli separati in modo che si sentano liberi in una Chiesa veramente Una. […] L’ecumenismo, mette praticamente tutte le religioni sullo stesso piano e dà il diritto comune a tutte le religioni. Ed è proprio lì un problema, a mio avviso, eccessivamente grave, perché il fatto di mettere tutte le religioni sullo stesso piano, distrugge la Chiesa. Se la Chiesa si definisse.. deve definirsi come l’unica vera.. la sola a detenere la verità, se mette ciò che chiama errori, le altre religioni erronee sul suo stesso piano, necessariamente non le resta che sparire, non ha più ragion d’essere».
Non si parla più dei protestanti come degli eretici, ma essi divengono “nostri fratelli nella fede” e, proseguendo pervicacemente nel dialogo interreligioso, mancherà poco che le altre gerarchie dichiarino che anche i musulmani sono “nostri fratelli” perché credono in Dio. Per Monsignor Lefebvre è il diavolo che penetra, poiché questo si incarna da sempre con i valori della rivoluzione francese, penetrati nella Chiesa. L’organizzazione dei padri “liberali” consegue il successo delle loro idee e solo molto tardivamente avviene un’organizzazione dei Vescovi conservatori con l’italiano Luigi Maria Carli (1914 – 1986), i brasiliani Antônio de Castro Mayer (1904 – 1991) e Geraldo de Proença Sigaud (1909 – 1999), i quali insieme a Monsignor Lefevbre costituiscono Il Coetus Internationalis Patrum (Gruppo Internazionale di Padri conciliari). Il Gruppo riesce a rinviare, per ben cinque volte, il documento sulla libertà religiosa, ma l’8 dicembre del 1965, Paulus PP. VI chiude ufficialmente il Concilio Vaticano II con il grande cambiamento della Chiesa in materia dottrinale. Ma agli occhi dei fedeli il cambiamento più visibile, nato sempre dal Concilio, resta senza dubbio quello della liturgia. Fin dal 1969 Paulus PP. VI ordina l’applicazione del Novus Ordo Missae, al posto dell’antico Messale detto di “San PioV”. Nonostante le disposizioni, Marcel Lefevbre decide di continuare a celebrare l’antico Messale di sempre. L’arcivescovo francese era perfettamente cosciente che la nuova messa, era stata pensata e redatta in accordo con i protestanti, per eliminare le porzioni della liturgia che infastidivano la loro eresia. Ebbe a scrivere, nella cosiddetta «dichiarazione» del 21 novembre 1974: «noi aderiamo con tutto il cuore, con tutta la nostra anima alla Roma cattolica, custode della fede cattolica e delle tradizioni necessarie alla conservazione di questa fede, alla Roma eterna, maestra di saggezza e di verità». La verità che andò professando con forza, fino ad apparire disobbediente, con coraggio, fino a rimetterci di persona, e con determinazione, subendo invettive ed umiliazioni.
Nel maggio del 1969 alcuni seminaristi chiesero a monsignor Lefebvre di poter ricevere da lui una formazione sacerdotale cattolica tradizionale e, piegato dalle loro insistenze, decise di fondare a Friburgo il «Convitto internazionale San Pio X», il Papa santo che aveva condannato l’eresia modernista nel 1907 con l’enciclica Pascendi Dominici Gregis. Il 1° ottobre 1970 aprì, con l’autorizzazione del Vescovo di Sion (Svizzera), un anno di spiritualità di preparazione agli studi ecclesiastici ad Écône (Svizzera) e in dicembre vide la luce, con approvazione episcopale, il Seminario della Fraternità San Pio X. Tuttavia si formò un clima di profonda avversione intorno a monsignor Lefebvre, che non rinunciava a denunciare, con la determinazione di un sant’Atanasio (295 – 373) o di una santa Caterina da Siena (1347 – 1380) e con una sorprendente lucidità tomista, le malsane idee neo-moderniste, parlando nei momenti opportuni e inopportuni, come insegna san Paolo (2 Tm 4, 1-2), mettendo in guardia dai cattivi maestri, apportatori, con linguaggio talvolta ambiguo, di erronei insegnamenti in seminari ed università.
Lefevbre più volte ha affermato come «dei seminaristi sono venuti a trovarmi e hanno chiesto di avere una formazione, ci sono dei genitori che mi hanno detto “non abbandonate i nostri figli, vogliono essere sacerdoti, hanno diritto ad una buona formazione”; ci sono dei fedeli che volevano la Messa e i Sacramenti». Questa è stata sempre la condotta di Monsignor Lefevbre: si risponde ai bisogni dei fedeli, ed era tanto più preoccupato della regolarità canonica proprio perché si rendeva ben conto che era obbligato ad essere in contrasto con certe direttive di Roma e voleva assolutamente che i fedeli pregassero per il Papa e per il canone della Messa, per il Vescovo della Diocesi, rifiutando sempre le tesi semi-vacantiste e quindi la sua prima preoccupazione era l’unione con Roma. Per l’arcivescovo francese i superiori sono fatti per il bene e non possono impedire ai fedeli di avere la Messa, di avere i sacramenti e quindi non si può usare il diritto canonico contro il bene dei fedeli, ed è per questo che considerava che ci sono dei momenti in cui si è dispensati – lo stato di necessità nella Chiesa -, risalendo al principio superiore delle leggi della Chiesa, chiamato Salus animarum (la salvezza delle anime) e nulla può impedire al sacerdote di salvare le anime.
Per la quaresima del 1961 monsignor Lefebvre scrisse una lettera pastorale di stupefacente valore contemporaneo: «molti motivi devono suscitare nei nostri animi la sete della verità. Le nostre anime sono fatte per la Verità. Le nostre intelligenze, riflesso dello spirito divino, ci sono state date al fine di conoscere la Verità, di darcene la luce che ci indicherà lo scopo verso il quale deve orientarsi tutta la nostra vita… Chi si forgia una verità sua propria vive l’illusione, in una menzogna immaginaria… La corruzione dei pensieri è ben peggiore della corruzione dei costumi… È per questo che il dovere più pressante dei vostri pastori, che devono insegnarvi la Verità, è quello di diagnosticarvi quelle malattie dello spirito che sono gli errori. E come non deplorare, come già faceva san Paolo, che alcuni di coloro che hanno ricevuto la missione di predicar la Verità non han più il coraggio di dirla, oppure la presentano in un modo tanto equivoco che non si sa più dove si trova il limite fra Verità e l’errore… Si può dire che ancor oggi esiste una certa letteratura religiosa, o che pretende d’occuparsi di religione, che il talento d’impiegare parole equivoche o di forgiare dei neologismi di tale natura… da sperare di poter così mantenere l’approvazione della Chiesa pur compiacendo coloro che sono fuori dalla Chiesa o che la perseguitano… Questa concezione del linguaggio (equivoco) è segno della corruzione dei pensieri». Tale affermazione ricorda le denunce anti-liberali del beato, prossimo alla canonizzazione, cardinale John Henry Newman (1801 – 1890), il quale giunse ad affermare: «in questi cinquant’anni ho pensato che si stiano avvicinando tempi di diffusa infedeltà, e durante questi anni le acque, infatti, sono salite come quelle di un diluvio. Prevedo un’epoca, dopo la mia morte, nella quale si potranno soltanto vedere le cime delle montagne, come isole in un vasto mare. Mi riferisco principalmente al mondo protestante; ma i leaders cattolici dovranno intraprendere grandi iniziative e raggiungere scopi importanti, e avranno bisogno di molta saggezza e di molto coraggio, se la Santa Chiesa deve liberarsi da questa terribile calamità, e, sebbene qualunque prova che cada su di lei sia solo temporanea, può essere straordinariamente dura nel suo decorso». Autorevole fu «il richiamo dell’allora Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede ed oggi Pontefice f.r., che denunciò in un famoso libro-inchiesta Rapporto sulla Fede – la deleteria presenza d’uno spirito anti: presenza dell’inimicus homo e della zizzania da lui seminata a piene mani nei solchi della Chiesa conciliare e postconciliare per renderne difficile il discernimento secondo la Fede e stemperarlo nel possibilismo, nel relativismo, nell’immanentismo del pensiero moderno. Poco prima d’ascender al soglio di Pietro, fu ancora il card. Ratzinger, nel memorabile e drammatico testo per la “Via Crucis” del venerdì santo 2005, a parlar di “sporcizia”… nella Chiesa, anche fra coloro che, nel sacerdozio, dovrebbero appartenere completamente a Dio, di “superbia… autosufficienza… e mancanza di Fede”, e concluse con una preghiera che fa rabbrividire: «Signore, spesso la tua Chiesa ci sembra una barca che sta per affondare, una barca che fa acqua da tutte le parti» (J. Ratzinger, Via Crucis, Tip. Vatic. 2005, pp. 63-65). Non era stato da meno il suo predecessore, il quale, nonostante tutto il suo ottimismo tipicamente “conciliare”, aveva dovuto costatare che il Cattolicesimo europeo è in uno «stato d’apostasia silenziosa».
Storico anche il suo discorso sul comunismo, poiché fu uno dei primi vescovi a toccarne l’argomento: «che dicono i comunisti? Dicono che la religione è un’alienazione. Si, è vero, la religione è un’alienazione, nel senso che noi doniamo i nostri corpi, le nostre anime, la nostra intelligenza, la nostra volontà nelle mani di Dio. Noi ci alieniamo per donarci interamente a Dio, interamente a Colui che ci ha creati. Voi vi alienerete per un partito, per degli uomini. Voi mettete tutta la vostra natura, tutta la vostra forza, tutto ciò che avete nelle mani degli uomini».
Prima della «ribellione» ad un sistema che sull’onda della modernità e del relativismo stava trascinando con sé l’ecclesiologia che aveva ceduto alle lusinghe del mondo con la giustificazione di essere al passo con i tempi, Lefebvre era all’unanimità considerato un prete e un Vescovo modello. In seguito, con le burrasche conciliari e postconciliari, dritto come un fuso fino alla fine, continuò a parlare chiaro, senza ambiguità o diplomazie, divenendo maestro, amabile padre e formatore di molti figli, pronti alla «buona battaglia»: «lasciate trasparire in voi il Cristo, affinché i fedeli, accanto a voi, siano un po’ più celesti, un po’ più vicini a Dio, un po’ più lontani dalle cose terrene, affinché possiate condurli veramente a Nostro Signore e al Cielo!». «Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus» (Il Sacerdote, è l’amore del cuore di Gesù), diceva il santo Curato d’Ars. Il sacerdote è la massima espressione in terra di unione fra contingente ed eternità. Affermava ancora san Giovanni Maria Vianney: «Tolto il sacramento dell’Ordine, noi non avremmo il Signore. Chi lo ha riposto là in quel tabernacolo? Il sacerdote. Chi ha accolto la vostra anima al primo entrare nella vita? Il sacerdote. Chi la nutre per darle la forza di compiere il suo pellegrinaggio? Il sacerdote. Chi la prepara a comparire innanzi a Dio, lavandola per l’ultima volta nel sangue di Gesù Cristo? Il sacerdote, sempre il sacerdote. E se quest’anima viene a morire per il peccato, chi la resusciterà, chi le renderà la calma e la pace? Ancora il sacerdote… Dopo Dio, il sacerdote è tutto!… Lui stesso non si capirà bene che in cielo» . Tale missione e tale grazia di Dio per l’umanità furono sempre la stella polare di monsignor Lefebvre.
Con desolazione e amarezza Paolo VI, ancora nell’angosciata omelia del 29 giugno 1972, dichiarava: «Si credeva che dopo il Concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. È venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio, di ricerca, di incertezza». Oggi verrebbe da dire: ma Lefebvre, il vituperato Lefebvre, l’aveva detto… L’aveva detto, con ardore e passione, con dolore e forza, subendo conseguenze molto gravi e pagando di persona, con la sospensione a divinis (22 luglio 1976), prima, e con, addirittura, la scomunica (1° luglio 1988), poi.

Il 30 giugno 1988, Lefebvre, con il vescovo emerito Antônio de Castro Mayer di Campos (Brasile), come co-consacrante, consacrò quattro sacerdoti FSSPX come vescovi (da sinistra a destra): Bernard Tissier de Mallerais (1954), Richard Williamson (1940) , Alfonso de Galarreta (1957) e Bernard Fellay (1958). Quest’ultimo oggi è il Superiore Generale della FSSPX dal 12 luglio del 2006.

Affermerà sulla situazione della Chiesa: «Ora, è evidente che questo nuovo rito, è sotteso – se così si può dire – verso un’altra concezione della religione cattolica, un’altra religione. Non è più il sacerdote che offre il santo sacrificio della messa, è l’assemblea. Questo è tutto un programma. Ormai, è l’assemblea che sostituisce anche l’autorità nella Chiesa: è l’assemblea episcopale che sostituisce il potere dei vescovi, è il consiglio presbiterale che sostituisce il potere del vescovo nella Diocesi, è il numero che comanda oramai nella Santa Chiesa e questo è espresso nella Messa proprio perché l’assemblea sostituisce il sacerdote al punto tale che ora molti sacerdoti non vogliono più celebrare la Santa Messa quando non c’è assemblea. Piano piano è la nozione protestante che s’introduce nella Santa Chiesa […] È vero è sempre penoso essere in difficoltà con le autorità e non desidero altro che di rientrare in buoni rapporti con loro, ma mi sento sostenuto, direi, da 2.000 anni di Cristianità. Di conseguenza, ho perfino l’impressione che la mia posizione sia più tranquilla della loro. Essi si basano su di una Chiesa che è cominciata dal Vaticano II, io ho 2.000 anni di Chiesa dietro di me».
Trascorse gli ultimi anni della sua vita tra i continui spostamenti dovuti al consolidamento e allo sviluppo provvidenziale dell’opera internazionale San Pio X e nella quiete di chi sa di aver seguito la volontà di Dio, si spense nell’ospedale svizzero di Martigny il 25 marzo 1991, giorno dell’Annunciazione di Maria Vergine. Sulla sua semplice tomba, nel caveau di Écône, venne scritto, secondo il suo desiderio: Tradidi quod et accepi («Vi ho trasmesso quello che anch’io ho ricevuto», 1Cor 15,3).
Non possedeva doti profetiche, ma era un profondo realista, guardava la realtà in faccia, senza nascondersi dietro le illusioni, le facili e comode utopie. Ed ecco che la Chiesa di Benedetto XVI con il Motu proprio del 7 luglio 2007, Summorum Pontificum, liberalizza la Santa Messa di sempre, il cui «Messale non fu mai giuridicamente abrogato e, di conseguenza, in linea di principio, restò sempre permesso», e il 24 gennaio 2009 revoca il decreto di scomunica latae sententiae ai vescovi della Fraternità Sacerdotale San Pio X, consacrati da monsignor Marcel Lefebvre nel 1988.
Per approfondimenti
_M. Marín, John Henry Newman. La vita (1801-1890), Jaca Book, Milano 1998;
_B. Gherardini, Concilio Ecumenico Vaticano II. Un discorso da fare, Casa Mariana Editrice, Frigento (Avellino) 2009;
_«Semaine religieuse», Tulle, 20 aprile 1962;
_Le Sacerdoce, c’est l’amour du coeur de Jésus, in Le curé d’Ars. Sa pensée – Son coeur. Présentés par l’Abbé Bernard Nodet, éd. Xavier Mappus, Foi Vivante, 1966;
_Cristina Siccardi, Mons. Marcel Lefebvre. Nel nome della verità, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Maestro in sacerdozio. La spiritualità di Monsignor Marcel Lefebvre, Sugarco Edizioni;
_Cristina Siccardi, Nello specchio del Cardinale John Henry Newman, Fede e Cultura, 2010.

 

© Coetus Fidelium Beato Marco da Montegallo – Riproduzione riservata

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