
L’incontro tra Dio e l’uomo nella Liturgia
di don Nicola Bux 31-10-2019
Cosa sta sotto la questione liturgica odierna? Dopo Kant non si accettano i fatti ma solo le interpretazioni. Questa è la malattia di certo cristianesimo – e della liturgia che dovrebbe ripetere il fatto di Gesù Cristo (il rito): intaccare il fatto, il mistero, interpretandolo invece di obbedire. È l’indisciplina. Ora il Mistero, i Misteri, è il luogo del ‘Fatto’ di Dio incarnato, Gesù Cristo e Signore. Il Fatto è la Presenza di Dio. Noi «Ti rendiamo grazie per averci ammessi alla tua Presenza a compiere il servizio sacerdotale». La presenza di Dio è la liturgia divina. Questa è il Fatto.

Il Mistero dice a me: io sono ciò che manca alle cose che tu gusti. Nella liturgia c’è l’origine di ciò che sono ora, irriducibile alla mia misura. Perciò, l’uomo mendicante di Dio è la sconfitta della grande tentazione originale e ricorrente di farsi Dio. Questo è l’atteggiamento giusto. San Pietro reagisce dinanzi alla sproporzione tra sé e Cristo. Al primo incontro dopo la pesca inaspettata sul lago di Tiberiade sceglie l’isolamento: «Allontanati da me, o Signore, perché sono un uomo peccatore» (Lc 5,4-9).
Al secondo incontro nel medesimo contesto, dopo aver tradito Gesù fino alle lacrime, aveva coscienza di essere peccatore e chiede a Gesù di rimanere lì: «Signore, tu sai tutto, tu lo sai che io ti amo» (Gv 21,15-19). Pietro sceglie la solitudine, la verginità. La vita è cambiata grazie a chi mi abbraccia come io sono. Questo accade nella liturgia sacramentale: è efficace a tale trasfigurazione – San Francesco: «Siamo quelli che siamo davanti a Dio e niente più».
L’uomo ha bisogno di un incontro decisivo con una Persona, di un orientamento decisivo della vita. Ecco a cosa serve la liturgia con la sua ‘tradizione’, cioè il movimento di consegna da Dio all’uomo, di generazione in generazione. In tale movimento c’è anche tutta l’innovazione: «Ecco, Io faccio nuove tutte le cose» (Ap 21,5).
Questo movimento è la Chiesa! Questa dinamica è la liturgia che ripresenta i misteri divini con la sua simbolica rituale, la sua disposizione architettonica e iconografica e la sua interpretazione (erminìa o mistagogia). Dio disse a Mosè: «Non t’avvicinare! Togliti i calzari dai piedi, perché il luogo dove sei è terra santa» (Es 3,5). Ti converto, ti consacro e t’invio. Lo Spirito fa accadere questo nell’oggi della liturgia. Questo alimenta ogni mattina la speranza: l’attesa di Qualcuno che mi accolga come sono: l’Amore che è Dio. Così cambia la vita. Il mondo lo cambia la liturgia, non le facoltà teologiche. Dunque, la liturgia è la Presenza che ci accompagna e pazientemente ‘riforma’ la nostra vita. Ne è cosciente, non da ora, Benedetto XVI. Perciò è necessario il silenzio.
La presenza contemporanea a noi di Cristo– non i valori – crea il luogo dove dimorare e in cui seguirlo.
Cristo è il protagonista della nostra vita e quindi della liturgia. Perciò non basta l’ortodossia della dottrina, ci vuole la fedeltà alla sua Persona. La liturgia è missione: serve a far conoscere Gesù Cristo (non i valori della pace, della solidarietà, ecc). Lo insegna san Gregorio Magno (540-604), autore e legislatore della liturgia e del canto sacro, come attesta il sacramentario, nucleo originario del messale romano. Ma ci vuole l’esperienza della fede come soddisfacimento del bisogno profondo dell’io. Allora obbedisco a chi mi riempie della pienezza di Dio. Per questo bisogna obbedire al Vescovo di Roma da parte di tutti vescovi, così obbediranno tutti i sacerdoti ai vescovi e tutti i fedeli ai sacerdoti e tutti gli uomini alla Chiesa cattolica. Non vi può essere vera e profonda partecipazione alla vita della Chiesa e alla liturgia, senza la consapevolezza di quello che è capitato alla mia vita con la fede. Per questo ci vuole la pazienza come «forma quotidiana dell’amore».
Il culto avviene soltanto per, con e in Gesù Cristo: diversamente non arriva a Dio Padre per adorarlo e nemmeno a noi per santificarci. Quindi non lo facciamo noi. Lo chiariva l’enciclica Mediator Dei di Papa Pio XII. Nessuno può parlare di liturgia senza partire da Cristo costituito mediatore tra Dio e l’uomo e senza intenderla come manifestazione somma e continua di tale mediazione. Egli è il luogo dell’incontro tra Dio e l’uomo e fa della liturgia il culmine della vita della chiesa e la fonte di ogni grazia. L’opera della redenzione di Cristo viene in modo analogo riproposta nella costituzione liturgica Sacrosanctum Concilium (cfr 5-6). Ma c’è un secondo elemento essenziale della liturgia cattolica secondo l’enciclica: «In ogni azione liturgica, quindi, insieme con la chiesa è presente il suo Divin Fondatore: Cristo è presente nell’augusto sacrificio dell’altare sia nella persona del suo ministro, sia massimamente sotto le specie eucaristiche; è presente nei sacramenti con la virtù che in essi trasfonde perché siano strumenti efficaci di santità; è presente infine nelle lodi e nelle suppliche a Dio rivolte, come sta scritto: ‘Dove sono due o tre adunati in nome mio, ivi sono in mezzo ad essi’ (Mt 18,20)» (I,1). Il versetto viene ripreso nel noto paragrafo della costituzione liturgica sulla presenza di Cristo (n 7) con la sola aggiunta: «È presente nella sua parola, giacché e lui che parla quando nella chiesa si legge la Sacra Scrittura». Poco prima, la costituzione liturgica, richiamandosi al sacramentarlo veronese, afferma che Cristo è «Mediatore tra Dio e gli uomini e pienezza». La definizione della liturgia come «il culto pubblico integrale del corpo mistico di Gesù Cristo, cioè del capo e delle sue membra» (I,2), contenuta nell’enciclica di Papa Pacelli, è stata declinata nel n.7 della costituzione liturgica. La liturgia è l’opera di Cristo, capo e membra. La chiesa interviene, ma in maniera subordinata a Cristo, che è il celebrante principale. Va da sé che il sacerdote è strumento nelle mani del vero celebrante, Cristo, per la salvezza del popolo; pertanto non conviene usare l’espressione «assemblea celebrante» e simili (Istruzione Redemptionis sacramentum, n 42).

Definir la liturgia culmine e fonte l’endiadi celebre della Sacrosanctum Concilium (n.10) resta incomprensibile senza la presenza di Gesù Cristo, che è venuto nel mondo per stare con noi tutti i giorni fino alla fine. Se però chiediamo a laici impegnati, a presbiteri e a vescovi la definizione di liturgia, non risponderanno citando la prima, bensì la seconda. Sembra che teologi e liturgisti nel post-concilio abbiano dimenticata la prima definizione che il concilio dà di liturgia. Invece è grazie a quella che la definizione «culmine e fonte» utilizzata anche da Benedetto XVI in Sacramentum caritatis (nn. 3, 17, 70, 76, 83, 93) ha il suo senso. Ma bisogna anche chiedersi perché la prima definizione sia stata fatta cadere. Forse perché la seconda si presta più facilmente all’idea che la liturgia sia fatta da noi.. con tutte le conseguenze! Il Vaticano II avrebbe avallato tale idea? Trattando dell’ecclesiologia della Lumen gentium, Ratzinger cardinale dice che il Vaticano II, scegliendo di trattare della liturgia prima di ogni altra cosa, aveva dato l’inquadramento generale ai suoi decreti. Parlare di liturgia, infatti, significa parlare di Dio: «All’inizio vi è l’adorazione e quindi Dio». Quindi è impensabile far passare un concetto principalmente umano di liturgia, cioè la sua organizzazione, come la vera intenzione del concilio. L’etimologia ci ricorda che la parola greca ekklesia viene dal verbo kaleo e dall’ebraico corrispondente qahal. La liturgia della Chiesa non è una riunione spontanea di popolo che celebra e festeggia a suo modo la divinità, non una congregazione organizzata dai fedeli – secondo qualche liturgista, anche la parola latina celebrare avrebbe sullo sfondo il verbo greco kaleo – ma è convocata da Dio: «La chiesa deriva dall’adorazione, dalla missione di glorificare Dio […]. L’ecclesiologia ha a che fare per sua natura con la liturgia […]. Nella storia del dopo concilio la costituzione sulla liturgia non fu certamente più compresa da questo fondamentale primato dell’adorazione, ma piuttosto come un libro di ricette su ciò che possiamo fare con la liturgia […]. Quanto più però noi la facciamo per noi stessi, tanto meno attraente essa è, perché tutti avvertono chiaramente che l’essenziale va sempre più perduto».
All’inizio della riforma non si mise in discussione la croce sull’altare o in alto, in modo che lo sguardo del prete da una parte e dei fedeli dall’altra potessero soffermarsi su di essa. Poi pian piano si è teorizzato che poteva essere spostata ad un lato; infine è finita alle spalle del sacerdote – sovente insieme al tabernacolo– e non è più oggetto di attenzione; questo accade mentre il filorientalismo moltiplica le icone ai lati dell’altare nella speranza che siano più venerate. Vuol dire che si sente ancora l’esigenza di aiutare i fedeli a soffermarsi sull’immagine.
Poi, la celebrazione odierna mette il prete al centro con la sua sede: è diventata una liturgia versus presbyterum, non più versus Deum! Il sacerdote è diventato più importante della croce, dell’altare e del tabernacolo! Impariamo dalla liturgia orientale e dalla messa antica ritenuta clericale, in cui la cattedra del vescovo e la sede del celebrante stanno a destra e a sinistra dell’altare, in modo da non dare le spalle e da permettere di guardare lo stesso altare e la croce, insieme il grande segno di Cristo, e nello stesso tempo di essere in testa all’assemblea dei fedeli. Senza fare grandi lavori tutto questo si può attuare, in particolare la croce deve tornare al centro dell’altare o sopra di esso, come Benedetto XVI ha ripreso a fare nelle celebrazioni da lui presiedute. Solo Cristo può essere al centro degli sguardi di tutti (cfr Lc 4,21). Se i segni valgono qualcosa! La sacra liturgia ha bisogno della nostra umiltà: «Ti preghiamo umilmente». L’umiltà è la vera misura della liturgia e di conseguenza di noi stessi, perché siamo creature e bisognosi di tutto. Così intesa l’umiltà è verità. Non è la vera adorazione quella fatta in spirito e verità? È alla verità che tende l’intelletto. La mediazione tra Dio è il popolo è del tutto sottomessa a quella di Gesù Cristo, non il momento dell’autorealizzazione. Perciò il sacerdote deve avere coscienza di non poter mettere in primo piano se stesso e tanto meno le sue opinioni, ma solo Cristo. Il senso vero di pròestos, incomprensibile con la parola ‘presidente’, è stare davanti agli altri e in tal senso prae-sedens. Dalla Didascalia siriaca si deduce che il vescovo stava davanti o in testa alla comunità che guardava l’altare verso oriente, tant’è che gli si chiede, nel caso entrasse un povero, di cedergli il posto, cosa che non avrebbe potuto fare se fosse stato seduto di fronte e su un trono.Ancora una volta questo vuol dire umiltà (cfr Sacramentum caritatis, 23).

Particolare della Madonna nella chiesa di San Cristoforo detta anche chiesa della Confraternita della Buona Morte, è un luogo di culto cattolico ubicato nel centro storico di Ascoli Piceno, nel quartiere di Santa Maria Intervineas.
Se quanti amano o scoprono la precedente tradizione liturgica devono anche convincersi «del valore e della santità del nuovo rito», tutti gli altri dovrebbero riflettere sul fatto che «nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande, e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso». Le parole di Benedetto XVI richiamano queste altre: «se da una parte constatiamo con dolore che in alcune regioni il senso, la conoscenza e lo studio della liturgia sono talvolta scarsi o quasi nulli, dall’altra notiamo con molta apprensione che alcuni sono troppo avidi di novità e si allontanano dalla via della sana dottrina e della prudenza. Giacché all’intenzione e al desiderio di un rinnovamento liturgico, essi frappongono spesso principi che, in teoria o in pratica, compromettono questa santissima causa, e spesso la contaminano di errori che toccano la fede cattolica e la dottrina ascetica».
Chi le ha scritte è Pio XII, nell’introduzione dell’enciclica Mediator Dei. La logica è la medesima: la tradizione è necessaria e l’innovazione ineluttabile, ed entrambe sono nella natura del corpo ecclesiale come del corpo umano. Non si oppongono ma sono complementari e interdipendenti. Pertanto non ha senso essere ad oltranza innovatori o tradizionalisti. Semmai bisogna incontrarsi e confrontarsi senza pregiudizio e con grande carità. Pio XII non si limitò ad enunciare la dottrina mediante l’enciclica, ma fece seguire le riforme: il permesso di usare le lingue locali accanto al latino per alcune parti dei riti liturgici in quei paesi europei e latino-americani dove l’unità cattolica non era a rischio; il permesso a determinate condizioni di celebrare la messa vespertina (1957), riscoprendo il giorno liturgico; la revisione delle norme sul digiuno eucaristico (1953) e le indicazioni per il rinnovamento della musica sacra sulle orme di san Pio X. E’noto che già nel 1946 «Pio XII aveva istituito una commissione per la riforma generale della liturgia, che avrebbe iniziato i propri lavori nel 1948 e che, nel 1959, sarebbe confluita nella commissione preparatoria del concilio per la liturgia. Non è dunque fuori luogo affermare che la costituzione sulla liturgia del Vaticano II aveva cominciato ad essere predisposta fin dal 1948, prendendo spunto dall’enciclica». L’approfondito lavoro preparatorio eviterà al progetto di costituzione conciliare, a differenza di tutti gli altri, la bocciatura. Tutto questo prende avvio dall’enciclica Mediator Dei, e farebbero attribuire al grande pontefice anche il titolo di «divini cultus instaurator». L’enciclica costituisce ancora un termine di confronto per il dibattito tra tradizione e innovazione. Pio XII, riallacciandosi alla costituzione Divini cultus del suo predecessore Pio XI, osserva che la gerarchia ecclesiastica «non dubitò, salva la sostanza del sacrificio eucaristico e dei sacramenti, di mutare ciò che non riteneva adatto, aggiungere ciò che meglio sembrava contribuire all’onore di Gesù Cristo e della augusta Trinità, all’istruzione e a stimolo salutare del popolo cristiano» (I,4). La liturgia infatti è composta di elementi divini e umani: «di qui viene che talvolta sono richiamate nell’uso e rinnovate pie istituzioni obliterate nel tempo» (I,4). È il criterio che guiderà il Papa nel restauro del rito della Settimana Santa, rimettendo in uso le tradizioni antiche e che sarà recepito dalla costituzione conciliare (cfr Sacrosanctum Concilium, n. 50). Il Papa Paolo VI riusciva ad applicarlo ancora nell’edizione del Messale Romano del 1965, quando preservava la messa antica, alleggerendola da duplicati tardivi. Esso torna in auge col motu proprio Summorum Pontificum di Benedetto XVI. Quel criterio, secondo la Mediator Dei, presiede all’evoluzione dei riti, ma senza cadere nell’archeologismo: «La liturgia dell’epoca antica è senza dubbio degna di venerazione, ma un antico uso non è, a motivo soltanto della sua antichità, il migliore. […] Anche i riti liturgici più recenti sono rispettabili, poiché sono sorti per influsso dello Spirito Santo» (I,5). La riforma liturgica, secondo Pio XII, risulta dunque dalla necessità delle cose, perché la liturgia stessa è una forma che continuamente tende a ri-formarsi nel senso dello sviluppo organico. Gli abusi non possono metterla in dubbio; perciò egli rammenta che «per tutelare la santità del culto contro gli abusi» esiste la congregazione dei riti. La liturgia è manifestazione della chiesa corpo e capo, organismo che produce energie sempre nuove pur conservando la sua forma fondamentale. Tutto questo sarà ribadito dalla costituzione liturgica (cfr n 21).
Forse ciò che ha condizionato la riforma dopo il Concilio è stato proprio l’archeologismo, che ritiene di dover tornare all’inizio, ma invalidando i passaggi della tradizione.
Per approfondimenti:
_H.J.Schulz, The Bizantine Liturgy. Symbolic structure and Faith Expression, New York 1986;
_Discorso di Benedetto XVI al clero di Bolzano-Bressanone, 6 Agosto 2008;
_L’ecclesiologia della costituzione Lumen gentium, in La Comunione nella Chiesa, Cinisello B. 2004;
_A.Tornielli, Pio XII. Eugenio Pacelli, un uomo sul trono di Pietro, Milano 2007.
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